Come si calcola il risarcimento del danno morale

Il danno morale è quel danno che colpisce la sfera più intima di un soggetto. Esso è inteso come un turbamento dello stato d’animo ed essendo invisibile il relativo risarcimento può risultare difficile da dimostrare e da quantificare.

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1. Cos’è il danno morale?

Per danno morale si intendono le sofferenze psichiche subite da un soggetto a causa di un fatto illecito commesso da altri, sofferenze non riconducibili alla sfera patrimoniale o fisica della persona, inoltre, secondo quanto disposto dall’art. 2059 del Codice Civile, i danni morali possono essere risarciti soltanto nei casi previsti dalla legge. In sostanza il danno morale attiene alla sfera esclusivamente personale del danneggiato ed alla sua sensibilità emotiva.

Si considerano solitamente danni morali gli stati d’ansia, stati depressivi, patemi d’animo che una persona può subire a seguito di lesioni fisiche o psicologiche, proprio per questa sua natura soggettiva il danno morale è difficilmente quantificabile in termini economici spetterà, infatti, al giudice stabilire di volta in volta l’entità del risarcimento dello stesso. A tal proposito nel 2008 la Corte di Cassazione si è espressa in merito al suddetto argomento statuendo che il patema d’animo, la sofferenza interiore e il turbamento psichico costituiscono il danno morale soggettivo, riconoscendogli così una propria autonomia legislativa.

La giurisprudenza, a seguito di varie analisi sul tema, ha concluso che il danno morale non è risarcibile solo se conseguente ad un reato bensì, è sufficiente che la condotta posta in essere sia anche solo astrattamente configurabile come reato per poter ritenere legittimo il risarcimento del danno. Si tratta di un danno che, sebbene spesso riconosciuto dal giudice, è difficilmente quantificabile in quanto dipendente da fattori soggettivi difficilmente accertabili ed individuabili.

2. Quando spetta il risarcimento del danno morale

Il risarcimento del danno morale è lo strumento attraverso il quale una persona, danneggiata, riceve una somma di denaro come forma di compensazione per la propria sofferenza interiore soggettiva, causata da un evento di cui non è responsabile, a risarcire il danno dovrà essere quel soggetto riconosciuto colpevole del fatto illecito.

È importante sottolineare che tale risarcimento non avviene automaticamente in conseguenza del fatto lesivo, bensì deve essere provato ed allegato dettagliatamente, pertanto il giudice sarà chiamato a valutare la gravità della lesione e la serietà delle conseguenze.

Il danno in oggetto rientrando nella categoria di danno non patrimoniale è ammesso quando venga accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona riconosciuto dalla Costituzione, pertanto oggetto di valutazione giudiziaria saranno la persona ed i suoi diritti fondamentali. Le situazioni soggettive protette dalla Costituzione possono riguardare i rapporti parentali, la libertà di pensiero, la reputazione, l’onore ecc. I danni morali possono essere risarciti soltanto in due casi:

  • Quando si è violato un diritto costituzionale;
  • Quando il fatto illecito consiste in un reato.

La Suprema Corte si è espressa recentemente in merito al risarcimento del danno morale (Cassazione Civile sent. n. 13992/2018) chiarendo che possono essere risarcite plurime voci del danno non patrimoniale, purchè provate ed allegate nella loro specificità, se ne deduce che soltanto dietro prove chiare il giudice potrà valutare ogni singola conseguenza derivante dal fatto dannoso.

Al fine di poter riconoscere l’esistenza di un danno morale è necessario, quindi, che le prove presentate dal soggetto, che si ritiene danneggiato, siano in grado di determinare l’effettiva presenza di una sofferenza causata dalle lesioni subite. Come si è già accennato, la quantificazione del risarcimento derivante del danno morale non è un’impresa facile, in particolare, in caso di lesioni di lieve entità è possibile che non vi sia alcuna sofferenza da risarcire, poiché presupposto del risarcimento è che la lesione abbia la caratteristica imprescindibile della gravità e non della futilità.

È importante sottolineare che quando un danno morale è collegato ad un danno fisico si è in presenza di un danno biologico, per esempio la limitazione fisica che si può subire a seguito di un incidente stradale. Quando non c’è un danno fisico è necessario dare una prova concreta e certa dei danni morali, incombe sul danneggiato, pertanto, l’onere di dimostrare ed allegare non solo il danno subito nella sua concretezza, ma, anche la stretta relazione esistente tra pregiudizio subito e comportamento illegittimo. In seguito il giudice una volta esaminata la fattispecie procederà ad una personalizzazione del danno non patrimoniale, in relazione a tutte le documentazioni ed alle prove dettagliatamente presentate dalla persona lesa.

3. Come si calcola il risarcimento del danno morale?

La giurisprudenza di legittimità ha recentemente affermato, differentemente da quanto sostenuto in precedenza, l’autonomo risarcimento del danno morale rispetto al c.d. danno biologico. Il danno biologico si identifica con la menomazione della sfera dinamico relazionale, ossia ciò che non si può più fare a seguito della lesione subita alla propria salute, e, quindi, la compromissione delle abilità della vittima nello svolgimento delle attività quotidiane.

Il danno biologico è tradizionalmente risarcito secondo un sistema tabellare di origine giudiziale (le c.d. tabelle milanesi) che dal 2011, alla luce di quanto affermato dalla Corte di Cassazione (Sent. N. 12408/2011), ha assunto una valenza paranormativa; pertanto, nel caso in cui la liquidazione del danno biologico sia effettuata senza prendere in considerazione tali tabelle, vi è la violazione della regola dell’equità e, quindi, si incorre nella violazione di legge.

L’equità, infatti, non è solo giustizia del caso concreto, ma anche parità di trattamento. La componente egualitaria dell’equità è garantita dalle tabelle milanesi, che assicurano una base di partenza uniforme della liquidazione del danno. Salva la possibilità di personalizzazioni in relazione alle peculiarità della fattispecie concreta. Le tabelle si fondano sul c.d. punto variabile di invalidità permanente.

Ad ogni punto di invalidità viene dato un valore economico, variabile in base a due fattori: età della vittima ed entità della lesione subita. Il valore economico del punto di invalidità, stimato in base alle tabelle giudiziali, secondo le Sezioni Unite del 2008 (Sentenze San Martino) include le conseguenze “normali” e “tipiche” derivanti dalla lesione alla salute subita. La

Cassazione recentemente (Sent. n. 2788/2019) ha sostenuto che il danno biologico non comprende il danno morale soggettivo, che attiene al rapporto della vittima con sé stessa, perché il danno morale non ha una base medico-legale e, pertanto, non è considerato all’interno delle tabelle milanesi. Il danno morale deve essere, quindi, aggiunto al valore tabellare del danno biologico, perché è una voce di danno che le tabelle non considerano.

Il giudice, perciò, rispetto al valore tabellare può effettuare due “personalizzazioni”: - Valutare la maggiore incidenza che la lesione della salute ha avuto sulla vita di relazione del soggetto, aggiungendo al valore tabellare un ulteriore importo a titolo di danno biologico; - Può aggiungere il danno morale soggettivo, che non è proprio riconosciuto dalle tabelle.

Secondo la Cassazione, infatti, una lesione della salute può avere delle conseguenze dannose, che possono essere inquadrate in due gruppi distinti:

  • Conseguenze “comuni” a tutte le persone che dovessero patire quel particolare tipo di lesione;
  • Conseguenze peculiari del caso concreto, che abbiano reso il pregiudizio patito dalla vittima diverso e maggiore rispetto ai casi simili.

Sia le prime che le seconde conseguenze costituiscono un danno non patrimoniale: la liquidazione delle prime, tuttavia, presuppone la mera dimostrazione dell’esistenza dell’invalidità; la liquidazione delle seconde esige la prova concreta dell’effettivo e maggior pregiudizio sofferto.

Pertanto, in presenza di un danno alla salute, non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di una somma di denaro a titolo di risarcimento biologico ed una somma ulteriore a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (dolore dell’animo, vergogna, paura, disperazione o disistima di sé).

Ove sia correttamente dedotta ed adeguatamente provata l’esistenza di uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale, essi dovranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione.

Il risarcimento delle c.d. vittime secondarie

La Giurisprudenza è unanime nell’attribuire rilevanza in materia di tutela aquiliana non solo ai rapporti familiari oggetto di espressa disciplina, ma anche a particolari legami “di fatto” quali la convivenza, idonei a fondare una situazione qualificata di contatto con la vittima primaria.

In tal senso si sono pronunciate le Sezioni Unite, affermando che “il criterio indicato dalla più recente dottrina per la selezione delle cosiddette vittime secondarie aventi diritto al risarcimento del danno, pur nella varietà degli approcci, è quello della titolarità di una situazione qualificata dal contatto con la vittima che normalmente si identifica con la disciplina dei rapporti familiari, ma non li esaurisce necessariamente, dovendosi anche dare risalto a certi particolari legami di fatto.

Questa situazione qualificata di contatto, la cui lesione determina un danno non patrimoniale, identifica dunque la sfera giuridica di coloro che appaiono meritevoli di tutela”.

Secondo La Suprema Corte “l’individuazione della situazione qualificata che dà diritto al risarcimento trova un utile riferimento nei rapporti familiari, ma non può in questi esaurirsi, occorrendo di volta in volta verificare in che cosa il legame affettivo sia consistito e in che misura la lesione subita dalla vittima primaria abbia inciso sulla relazione fino a comprometterne lo svolgimento” (cfr. Cass. SS.UU. 1°.07.2002 n.9556). Il caso esaminato dalle SS.UU. diviene occasione per una più ampia analisi – sotto l’insegna del danno morale da reato – sulla propagazione delle conseguenze del danno alla persona alle c.d. “vittime secondarie”, cioè ai soggetti collegati da un legame significativo con il soggetto danneggiato in via primaria.

Del resto, anche la Corte Costituzionale, con riguardo ai limiti soggettivi di risarcibilità del danno non patrimoniale ex art.2059 cc., aveva chiarito che “la tutela risarcitoria deve fondarsi su una relazione di interesse del terzo col bene protetto dalla norma incriminatrice, argomentabile, in via di inferenza empirica, in base ad uno stretto rapporto familiare (o parafamiliare, come la convivenza more uxorio)” (Sent. n.372/1994).

Pertanto, per ogni atto illecito, “esiste una vittima primaria, colpita o nel bene della vita o nel bene salute, e una vittima ulteriore (il congiunto), anch’essa lesa in via diretta, ma in un diverso interesse di natura personale. Spetta anche al congiunto il risarcimento del danno morale concretamente accertato in relazione ad una particolare situazione affettiva con la vittima, con conseguente legittimazione ad agire iure proprio contro il responsabile”.

Già nel 2001 la Terza Sezione della Corte di Cassazione aveva affrontato il problema, statuendo che “lo stretto congiunto, convivente e/o solidale per la doverosa assistenza con la vittima primaria, riceve immediatamente un danno consequenziale, di varia natura (biologico, morale, psicologico, patrimoniale e secondo recente dottrina e giurisprudenza, anche esistenziale), che lo legittima iure proprio ad agire contro il responsabile dell’evento lesivo” (cfr. Cass. Sez.III, Sent.2.02.2001 n.1516). Di convivenza tra familiari e legittimazione ad agire per il risarcimento del danno cagionato ad un prossimo congiunto si è occupata anche la Cassazione Penale con una decisione della Quarta Sezione (Sent.4.10.2002 n.33305).

La Corte si sofferma sulla convivenza come titolo per il risarcimento del danno da reato e, soprattutto, sulla circostanza che il fatto illecito penale, lesivo dello specifico diritto risarcibile, non debba consistere necessariamente nella morte della persona offesa. Deve infatti osservarsi che “l’aggressione ad opera del terzo legittima il convivente a costituirsi parte civile, essendo questi leso nel proprio diritto di libertà, nascente direttamente dalla Costituzione, diritto che è ivi qualificato come assoluto e tutelabile erga omnes, cioè in maniera diretta, e dunque nei confronti dell’autore del reato o di chi per lui debba rispondere in sede civile.

Può quindi affermarsi che la lesione di qualsiasi forma di “convivenza”, purché dotata di un minimo di stabilità, tale da non farla definire episodica, costituisce legittima causa petendi di una domanda di risarcimento danni proposta di fronte al Giudice Penale chiamato a giudicare dell’illecito che tale lesione ha causato”.

Fonti normative

  • Art. 2059 Codice Civile
  • Articoli 2 e 3 della Costituzione
  • Cassazione Civile sent. n, 13922/2018
  • Art. 10 Codice civile

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