Dipendenti pubblici: possono ricoprire ruoli in società?

Alle domande riguardanti i dipendenti pubblici ed il loro svolgimento di attività esterne occorre rispondere con particolare prudenza come vedremo in questo articolo.

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1. Chi sono i dipendenti pubblici?

I dipendenti pubblici, ancora più dei dipendenti privati, devono porre l’attenzione nel non svolgerele attività che possano essere considerate incompatibili con l’ufficio ricoperto. Negli ultimi anni, anche in ambito politico, ci si è soffermati grandemente sui comportamenti dei dipendenti pubblici. Si è, infatti, diffusa l’idea che molti dipendenti pubblici non svolgano il loro lavoro per servire in modo leale la cosa pubblica, ma per realizzare gli affari propri. A causa dei numerosi scandali che si sono verificati in enti pubblici sia locali che nazionali, il legislatore ha cercato di adeguare le norme prevedendo tutta una serie d’ipotesi di incompatibilità per i dipendenti pubblici.

Per dipendente pubblico, ai fini dell’art 1, comma 2, del d. lgs. 165 del 2001, s’intendono coloro che dipendono dalle amministrazioni pubbliche, ossia:

  • tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative;
  • le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo;
  • le Regioni, le Province, i Comuni, le comunità montane, i loro consorzi e associazioni;
  • le istituzioni universitarie;
  • gli Istituti autonomi case popolari;
  • le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni;
  • tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali;
  • le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale;
  • l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (Aran) e le altre Agenzie pubbliche;
  • il Coni.

I dipendenti pubblici, che svolgono la loro attività lavorativa alle dipendenze di queste amministrazioni sono stati, nel corso del tempo, equiparati ai lavoratori privati per quanto concerne la disciplina del rapporto di lavoro, esclusi gli specifici elementi che derivano dalla natura pubblica del datore di lavoro. Attraverso l’equiparazione dei dipendenti pubblici con quelli privati si prevede nei loro confronti un’applicazione dei doveri posti a carico del dipendente privato ed in particolare il dovere di fedeltà nei confronti del datore di lavoro. Il dovere di fedeltà e la materia d’incompatibilità nel pubblico impiego sono previsti dall’articolo 53, del d. lgs. 165 del 2001, il quale viene interpretato col voler vietare al dipendente di:

  • porre in essere attività in concorrenza con il datore di lavoro;
  • divulgare a terzi le informazioni che apprende durante il lavoro;
  • svolgere attività che possano entrare in conflitto con il proprio lavoro.

Per tali motivi, nel caso del pubblico dipendente, assume notevole rilevanza il rischio che l’ulteriore attività svolta dal dipendente si ponga in conflitto di interessi con il lavoro pubblico. Ad esempio, se Tizio fosse dipendente del Comune di Roma e si occupasse di edilizia privata, coordinando l’ufficio che rilascia le autorizzazioni ai privati che presentano progetti edili, nel caso in cui Tizio diventasse socio di una importante ditta di costruzioni che opera nelle zone limitrofe di Roma, risulterebbe lapalissiano che Tizio potrebbe ritrovarsi a rilasciare autorizzazioni proprio alla società di cui è socio. Con questo semplice esempio si è voluto evidenziare il fatto che le attività private svolte in aggiunta al lavoro pubblico potrebbero mettere il dipendente pubblico in una situazione di conflitto d’interessi, pregiudicando l’imparzialità ed il buon andamento dell’azione amministrativa, ex art. 97 della Costituzione.

Il pubblico dipendente ha un dovere di esclusività nell’esercizio della prestazione lavorativa nei confronti della Pubblica Amministrazione di appartenenza, il quale viene tutelato e disciplinato dalla Costituzione. Infatti, l’art. 98 prevede che i “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”. Tuttavia, anche prima dell’avvento della Costituzione, nel Regio Decreto n. 693 del 22 novembre 1908, denominato “Approvazione del T.U. delle leggi sullo stato giuridico degli impiegati civili”, era previsto nel nostro ordinamento l’istituto delle incompatibilità degli impiegati statali.

Con il termine dovere di esclusività s’intende l’imposizione al pubblico dipendente di riservare tutte le sue energie lavorative a vantaggio esclusivo dell’amministrazione di appartenenza. Nel nostro ordinamento tale dovere di esclusività non sussiste nel caso dell’impiego privato e potrà essere regolato dal solo legislatore e non potrà essere derogato né dalle parti né dai contratti collettivi.

2. Divieto di attività esterne da parte dei dipendenti pubblici

Al fine di evitare che i dipendenti pubblici si dedichino ad attività incompatibili con il loro lavoro, la legge prevede che tutti gli incarichi, anche quelli occasionali, non compresi nei compiti e nei doveri d’ufficio, per i quali è previsto un qualsiasi compenso, debbano essere, in precedenza, autorizzati dal datore di lavoro. Da tale norma sono esclusi:

  • i dipendenti part-time sotto il 50%;
  • i docenti universitari a tempo determinato;
  • le altre categorie previste da norme di legge.

Detto ciò, non tutte le attività sono da considerare come escluse dall’essere realizzate, infatti vi sono delle attività che non sono soggette a tale divieto, tra cui:

  • il collaborare con giornali, riviste, enciclopedie e simili;
  • partecipare a convegni e seminari;
  • gli incarichi per cui è previsto un mero rimborso spese;
  • incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali in aspettativa non retribuita;
  • la formazione diretta ai dipendenti della pubblica amministrazione.

L’art. 53 del d. lgs. 165 del 2001, prevede delle fattispecie di divieto di esercizio delle attività economiche per i dipendenti pubblici, tra cui:

  • il non poter esercitare il commercio, l’industria e nessun’altra professione;
  • non poter accettare incarichi alle dipendenze dei privati;
  • non poter accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia intervenuta l’autorizzazione del Ministro competente.

Il dipendente pubblico non può esercitare le attività economiche private, in quanto, si potrebbero creare dei problemi di conflitto d’interessi. L’intento di tale divieto risiede nel voler garantire l’imparzialità, l’efficienza ed il buon andamento della pubblica amministrazione, ed impedire che l’impiegato pubblico non si dedichi esclusivamente ai propri doveri pubblici.

Tuttavia, affinché si possa procedere allo svolgimento delle attività esterne, vi sono delle regole da seguire per poter chiedere alla propria amministrazione l’autorizzazione a svolgere le attività esterne al lavoro pubblico. Tale autorizzazione deve essere richiesta all’amministrazione di appartenenza del dipendente dai soggetti pubblici o privati che intendono conferire l’incarico oppure dal dipendente interessato. L’amministrazione di appartenenza deve pronunciarsi sulla richiesta di autorizzazione entro trenta giorni dalla ricezione della richiesta stessa. Per cui, decorso il termine di trenta giorni, l’autorizzazione s’intende concessa, nel caso di incarichi da svolgere presso le amministrazioni pubbliche, invece, se l’attività esterna deve essere svolta presso un soggetto privato s’intende come negata.

Invece, per quanto attiene le cariche in società, sia di persone che di capitali, al pubblico dipendente è vietato ricoprire ruoli di amministrazione e di gestione. Risulta, quindi, preclusa al pubblico dipendente la possibilità di assumere cariche sociali di Amministratore, Consigliere e Sindaco. Al contrario, allo stesso è concessa la possibilità di assumere la qualifica di socio nelle società di capitali, senza alcuna autorizzazione, e nelle società in accomandita semplice la posizione di socio accomandante. Secondo la giurisprudenza prevalente, nelle società cooperative, si ritiene che non si deve porre il problema d’incompatibilità, ma, qualora la società cooperativa persegua oltre allo scopo mutualistico anche quello di lucro, bisognerà valutare la prevalenza dello scopo mutualistico e l’impegno del pubblico dipendente nell’assolvimento dell’incarico.

Originariamente, il dovere di esclusività non comprendeva le prestazioni di tipo gratuito, quali lo svolgimento di attività di volontariato. Ciò nonostante, con il D.P.R. n. 62 del 16/04/2013 (Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo54 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165), però, è stato introdotto l’obbligo per il dipendente pubblico di comunicare in modo tempestivo all’amministrazione di appartenenza la propria adesione ad associazioni o organizzazioni i cui ambiti di interesse possono interferire con lo svolgimento dell’attività lavorativa pubblica. L’art. 5 del medesimo D.P.R. prevede che non sono soggette a dovere di comunicazioni le adesioni a partiti politici o ad organizzazioni sindacali.

3. La decadenza dall’incarico ed il licenziamento per giusta causa

Nel caso in cui il dipendente pubblico si metta in una condizione d’incompatibilitàsenza aver chiesto ed ottenuto preventivamente l’adeguata autorizzazione, le conseguenze nei suoi confronti possono essere molteplici e non di poco conto. Solitamente, in questi casi la sanzione prevista risulta essere la decadenza dall’incarico.

Quando l’amministrazione datrice di lavoro si rende conto che il proprio dipendente stia svolgendo un incarico non compatibile con le sue mansioni e non autorizzato, dà al dipendente pubblico un termine perentorio per rimuovere il motivo d’incompatibilità. Nei casi in cui tali condizioni d’incompatibilitànon venissero rimosse entro il termine previsto, sarebbe prevista la decadenza entro 15 giorni dalla data in cui ha ricevuto la relativa diffida da parte del Ministro competente o del Direttore Generale Competente. Viceversa, nel caso in cui il dipendente adempia, la decadenza automatica non scatta, ma non è escluso che non vi siano conseguenze negative per il lavoratore, il quale potrebbe subire un procedimento disciplinare da parte dell’amministrazione, in veste di datore di lavoro. Al contrario, nel caso in cui l’impiegato obbedisca alla diffida, facendo cessare la causa d’incompatibilità, rimane soggetto ad una possibile azione disciplinare, ex art. 55 d. lgs. 165 del 2001.

Tale fattispecie, della decadenza dal servizio, non si applica a tutti i rapporti di lavoro pubblico, ma solo a:

  • professori universitari a tempo indeterminato;
  • magistrati;
  • forze armate;
  • dipendenti di Consob, Banca d’Italia ed altre autorità indipendenti;
  • vigili del fuoco.

Invece, la decadenza dal servizio si applica solo a quei rapporti di lavoro che continuano ad essere assoggettati alla disciplina pubblica. La decadenza non può essere fatta rientrare tra le sanzioni disciplinari, ma deve essere considerata come una diretta conseguenza della perdita dei requisiti d’indipendenza e della totale disponibilità che caratterizza il pubblico impiego. Per tale motivo, la decadenza è cosa del tutto diversa dal licenziamento disciplinare, tale differenza viene prevista dalla Cassazione n. 17437 del 2012 e dalla Cassazione n. 967 del 2006. Il licenziamento disciplinare è la sanzione che rischiano i dipendenti pubblici diversi da quelli previsti sopra, ovverosia tutti i dipendenti con un rapporto di lavoro contrattualizzato.

Inoltre, non a tutti i dipendenti pubblici è preclusa l’assunzione di cariche in società con scopo di lucro; infatti, l’art. 1, comma 56 della l. 662/96, ha stabilito che le disposizioni in tema di incompatibilità dei pubblici dipendenti non trovano applicazione nei confronti di quei soggetti che svolgano attività lavorativa a tempo parziale, con prestazione non superiore al 50% di quella a tempo pieno. A tal fine, il comma 58-bis della medesima legge, stabilisce la necessità di individuare, mediante un apposito decreto ministeriale, le attività in funzione delle quali alla Pubblica Amministrazione è riconosciuto il potere di negare la riduzione dell’orario di lavoro, in attuazione del quale, sia la legge che la contrattazione collettiva, hanno identificato delle ipotesi di esclusione del diritto del pubblico dipendentealla trasformazione a part-time del rapporto di lavoro.

Nel momento in cui l’amministrazione apprenda della partecipazione del dipendente pubblico presso una società privata in qualità di socio, senza previa autorizzazione, l’amministrazione può ritenere che questo comportamento sia in contrasto con l’imparzialità del lavoratore, facendonevenir meno la sua fiducia. Per cui, la Pubblica Amministrazione potrebbe temere che il dipendente non si stia dedicando completamente alla propria attività lavorativa, ma stia distogliendo il tempo di lavoro per i propri affari.

Prima di provvedere al licenziamento disciplinare l’ente dovrà avviare il procedimento disciplinare a carico del dipendente. Tale procedimento si suddivide in molteplici fasi:

  1. l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, immediatamente e non oltre trenta giorni decorrenti dal ricevimento della segnalazione dello svolgimento di attività esterna, provvede alla contestazione scritta dell’addebito e convoca l’interessato, con un preavviso di almeno venti giorni, per l’audizione in contraddittorio a sua difesa. Il dipendente può farsi assistere da un procuratore ovvero da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato;
  2. dopo aver letto le giustificazioni del dipendente ovvero ascoltato la sua difesa, l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari conclude il procedimento, con l’atto di archiviazione o di irrogazione della sanzione del licenziamento disciplinare, entro centoventi giorni dalla contestazione dell’addebito.

4. Conclusioni

In conclusione, dunque, occorre fare riferimento anche a tali normative per verificare se il singolo rapporto possa essere trasformato in part-time e se, come conseguenza della trasformazione, l’impiegato possa assumere delle cariche gestionali.

L’elemento della professionalità è ravvisabile nella continuità e non occasionalità dello svolgimento della professione, anche qualora la stessa sia svolta in maniera esclusiva. Alla luce di quando enunciato sopra, si ritiene pertanto, che non vi sia una preclusione per il dipendente pubblico, ad esempio con incarico di direttore di un reparto ospedaliero, ad assumere un incarico operativo nel consiglio di amministrazione di una fondazione partecipata, operativa anche all’interno del proprio ospedale, purché:

  • l’incarico non sia retribuito;
  • si astenga dall’intervenire nelle decisioni che potrebbero avere una conseguenza nell’ambito del proprio lavoro quotidiano e del ruolo che occupa all’interno dell’ente ospedaliero (ad esempio, nel caso di donazioni economiche da destinare ad un reparto piuttosto che ad un altro, il tutto all’interno dell’ospedale presso cui il dipendente è assunto).

Pertanto, sarebbe consigliabile inoltrare al proprio diretto superiore, ovvero all’ufficio di competenza, una richiesta di autorizzazione all’assunzione di un simile incarico, andando ad argomentare nello specifico l’attività che lo stesso implicherebbe. In tale maniera, la pubblica amministrazione presso cui opera il dipendente pubblico verrebbe a conoscenza del tipo di incarico da svolgere e, ove ritenuto fattibile, ne autorizzerebbe per iscritto la concreta assunzione.

Luca Terrinoni

Fonti normative:

Costituzione: art. 97, 98

D. lgs. 165 del 2001, art. 1, comma 2, art. 53, 54, 55

L. 662 del 96, art. 1, comma 56

Regio Decreto n. 693 del 22 novembre 1908

D.P.R. n. 62 del 16/04/2013

Cassazione n. 17437 del 2012

Cassazione n. 967 del 2006

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