Disciplina della Caccia in Italia: Cosa dice la Legge

La caccia rappresenta un'attività profondamente radicata nella tradizione culturale italiana della popolazione da Nord a Sud, ma solleva al contempo significative questioni relative alla tutela della biodiversità sul territorio nazionale. Il quadro normativo vigente – fondato sulla Legge 157/92, che recepisce le Direttive europee "Uccelli" (2009/147/CE) e "Habitat" (92/43/CEE), e trova oggi un fondamento costituzionale ancora più solido nel nuovo testo dell'articolo 9 della Costituzione – prevede misure di protezione della fauna selvatica, la cui applicazione sul territorio presenta tuttavia diverse criticità. A seguito della riforma del 2022, con l’introduzione del comma 2 all’art. 9, la previsione costituzionale ha elevato la protezione della fauna a principio fondamentale, non più tutelata solo in funzione del paesaggio, ma come valore in sé, dal momento che viene considerata sia come parte integrante degli ecosistemi, sia dell’ambiente che nella tutela degli animali. Sebbene finora la riforma può dirsi rivoluzionaria solo sulla carta, la modifica è comunque rilevante dal momento che ogni anno vengono abbattuti milioni di esemplari di fauna selvatica, con inevitabili ricadute sugli ecosistemi già sottoposti a pressioni derivanti da urbanizzazione e al cambiamento climatico e pertanto è necessario intervenire con la maggiore urgenza possibile.  La questione giuridica da affrontare non si limita alla disamina della normativa esistente, ma coinvolge l'efficacia dei controlli e il livello di consapevolezza pubblica circa le implicazioni ecologiche dell'attività venatoria. Le deroghe concesse dalle Regioni, la gestione dei calendari venatori e la disponibilità di personale di vigilanza rappresentano elementi centrali del dibattito in merito all’attività venatoria. Il quadro normativo, peraltro, è attualmente oggetto di una proposta di revisione: il DDL n. 1552, presentato al Senato il 20 giugno 2025, propone modifiche sostanziali alla Legge 157/92, dall'introduzione del concetto di "gestione" della fauna al posto della sola protezione, all'ampliamento dei periodi e delle modalità di caccia, fino alla ridefinizione delle aree protette. Risulta quindi necessario analizzare il sistema normativo vigente, le responsabilità istituzionali nella protezione della fauna e l'importanza di rafforzare i meccanismi di controllo e la consapevolezza pubblica, in coerenza con l’imperativo costituzionale di proteggere gli animali ed il patrimonio naturale nella sua interezza, anche nell’interesse delle future generazioni.


Quadro Normativo di Riferimento

Legge 157/1992 sulla Protezione della Fauna Selvatica e le modifiche proposte dal DDL 1552/2025 

La Legge 11 febbraio 1992, n. 157, rappresenta il pilastro della normativa venatoria italiana, prevedendo principi fondamentali per il bilanciamento tra attività venatoria e tutela ambientale. L’art. 1 stabilisce che la fauna selvatica costituisce patrimonio indisponibile dello Stato, superando la precedente concezione di res nullius (cosa di nessuno) che caratterizzava il regime venatorio ante riforma. Questo principio implica che lo Stato ha il dovere di tutelare la fauna nell’interesse della collettività, consentendo l’attività venatoria solo entro limiti compatibili con la conservazione delle specie.

La legge individua le specie cacciabili e quelle protette, stabilisce i periodi di caccia, definisce le zone dove l’attività è vietata e regolamenta modalità e strumenti consentiti. Particolare rilevanza assume l’articolo 10, che introduce la pianificazione faunistico-venatoria attraverso i piani regionali, e l’articolo 18, che elenca tassativamente le specie cacciabili e fissa i periodi di attività venatoria. La normativa recepisce inoltre gli obblighi derivanti dalle Direttive europee 79/409/CEE (ora 2009/147/CE, direttiva Uccelli) e 92/43/CEE (direttiva Habitat), garantendo la protezione delle specie migratrici e degli habitat naturali di interesse comunitario.

Il DDL 1552/2025 propone una modifica sostanziale già nel titolo della legge, introducendo il concetto di "gestione" accanto a quello di protezione della fauna selvatica. Questo cambio terminologico riflette un orientamento verso una concezione più dinamica dell’attività venatoria, riconosciuta nell’articolo 2 del disegno di legge quale espressione di tradizione nazionale che "concorre alla tutela della biodiversità e dell’ecosistema". Si tratta di un approccio che enfatizza il ruolo attivo dei cacciatori nella gestione del territorio, con implicazioni significative sull’interpretazione e applicazione dell’intera normativa.

Normative Regionali e Regolamenti Locali 

Il sistema normativo italiano in materia di caccia si caratterizza per un’articolata distribuzione di competenze tra Stato e Regioni, delineata dall'articolo 117 della Costituzione. Mentre allo Stato spetta la definizione dei principi fondamentali, le Regioni godono di ampia autonomia nella disciplina di dettaglio dell’attività venatoria. Questa ripartizione trova concreta attuazione nella redazione dei calendari venatori regionali, che determinano annualmente i periodi e le modalità di caccia nel rispetto dei limiti stabiliti dalla legge nazionale e dalle direttive europee.

Le Regioni elaborano i piani faunistico-venatori, strumenti di programmazione territoriale che individuano le aree destinate alla caccia programmata, le zone di protezione, le oasi faunistiche e le zone di ripopolamento e cattura. Attraverso questi piani vengono gestiti gli ambiti territoriali di caccia (ATC), organismi che coordinano l’attività venatoria a livello locale. Le Regioni rilasciano inoltre le autorizzazioni per aziende faunistico-venatorie e aziende agri-turistico-venatorie, realtà che operano secondo specifiche finalità gestionali.

Il DDL 1552/2025 interviene significativamente su questo assetto, modificando l’articolo 10 della Legge 157/92 per ridefinire le competenze nella pianificazione faunistico-venatoria. In particolare, il disegno di legge introduce l’obbligo per le Regioni di trasmettere entro dodici mesi al Ministero dell’Agricoltura e al Ministero dell’Ambiente una relazione dettagliata sulle percentuali di territorio destinate alla protezione della fauna, con previsione di poteri sostitutivi statali in caso di inadempimento. La proposta prevede inoltre che le Regioni possano discostarsi dai pareri dell’ISPRA nella redazione dei calendari venatori, purché adducano motivazioni basate su "fonti di informazione scientifica indicate dalla Commissione europea", un elemento che potrebbe modificare sostanzialmente l’equilibrio tra autonomia regionale e tutela uniforme della fauna sul territorio nazionale.


Limiti all’Attività Venatoria

Specie Cacciabili e Periodi di Divieto 

L’articolo 18 della Legge 157/92 stabilisce con precisione quali specie possono essere oggetto di prelievo venatorio ed i periodi in cui è consentito il prelievo venatorio delle specie indicate. Il periodo generale di caccia è compreso tra la terza domenica di settembre e il 31 gennaio, con possibilità per le Regioni di modificare, per determinate specie, il momento di apertura della stagione venatoria in relazione alle situazioni ambientali delle diverse realtà territoriali, a condizione della preventiva predisposizione di adeguati piani faunistico-venatori e del rilascio del parere favorevole di ISPRA. La normativa prevede anche il c.d. "silenzio venatorio" nei giorni di martedì e venerdì, durante i quali l’attività è vietata sull’intero territorio nazionale. Esistono deroghe per particolari forme di caccia, come quella di selezione agli ungulati, che può essere praticata anche al di fuori dei periodi ordinari secondo piani di prelievo approvati dalle Regioni. Tutte le specie non espressamente indicate come cacciabili sono da considerarsi protette, con divieto assoluto di abbattimento, cattura o detenzione.

Il DDL 1552/2025, attualmente all’esame del Senato, introduce modifiche significative ai periodi di caccia, eliminando il limite della prima decade di febbraio previsto dalla normativa vigente. L’articolo 11 apporta modifiche all’articolo 18 della L.n. 157/1992, introducendo nuove disposizioni in materia di specie cacciabili e periodi di attività venatoria. In particolare, al comma 1, lettera a), numero 1), si prevede che le Regioni, nell’articolazione dei calendari venatori, possano discostarsi dalle indicazioni fornite nei pareri espressi dall’ISPRA e dal Comitato tecnico faunistico-venatorio nazionale (CTFVN) a condizione di addurre una motivazione suffragata da argomentazioni acquisite da fonti di informazione scientifica indicate dalla Commissione europea. La motivazione addotta riguarda i cambiamenti climatici, che inciderebbero sulle dinamiche ambientali e dell’ecosistema. Questa modifica solleva tuttavia molti interrogativi sul rispetto delle direttive europee in materia di protezione dell’avifauna durante i periodi riproduttivi e migratori, aspetti che hanno già generato procedure di infrazione contro l’Italia in passato. 

Zone di Divieto e Regolamentazione Territoriale

La Legge 157/92 stabilisce che l’attività venatoria è vietata in determinate aree del territorio nazionale per garantire la conservazione della fauna e la sicurezza pubblica. L’articolo 21 identifica diverse tipologie di zone di divieto permanente, tra cui i parchi nazionali e regionali, le riserve naturali, le oasi di protezione, le zone di ripopolamento e cattura, i centri pubblici e privati di riproduzione della fauna selvatica. Il divieto si estende inoltre alle aree urbane, ai giardini, ai parchi pubblici e privati, ai terreni adiacenti ad abitazioni per un raggio di cento metri, nonché alle strade, autostrade, ferrovie e relativi argini.

Particolare rilevanza assume la protezione dei valichi montani interessati dalle rotte di migrazione dell’avifauna, dove la caccia è vietata per un raggio di mille metri. La legge prevede inoltre che almeno il 20-30% del territorio agro-silvo-pastorale di ogni Regione debba essere destinato a protezione della fauna, attraverso l’istituzione di zone di divieto nelle quali è vietato qualsiasi prelievo venatorio. Nelle aree contigue ai parchi nazionali e regionali, la caccia può essere esercitata solo con limitazioni specifiche stabilite dagli enti gestori, nell’ottica di creare zone cuscinetto che proteggano gli habitat più sensibili.

Il DDL 1552/2025 interviene significativamente sulla regolamentazione territoriale, prevedendo all’articolo 6 che le Regioni debbano trasmettere entro dodici mesi una relazione dettagliata sulle percentuali di territorio sottratto alla caccia. La proposta introduce inoltre la possibilità di ridefinire le aree protette attraverso un accordo in Conferenza Stato-Regioni, qualora le percentuali di territorio destinate a protezione della fauna superino i limiti di legge. Questo meccanismo potrebbe comportare una riduzione delle zone di tutela, sebbene il disegno di legge specifichi che il procedimento dovrà avvenire "nel rispetto degli obblighi sovranazionali assunti dall’Italia". Quanto ai valichi montani, l’articolo 14 del DDL propone una loro identificazione precisa su base cartografica mediante decreto interministeriale, prevedendo che in tali zone vengano istituite zone di protezione speciale dove l’attività venatoria possa essere consentita secondo regolamenti specifici.

Strumenti e Modalità Consentite 

La normativa italiana regolamenta rigidamente gli strumenti utilizzabili nell’attività venatoria e vieta specifiche modalità di caccia considerate non sostenibili o crudeli. L’articolo 13 della Legge 157/92 consente l’uso esclusivo di fucili con massimo due colpi in canna, più uno in serbatoio, archi e balestre per la caccia di selezione, nonché richiami vivi appartenenti a specie cacciabili regolarmente inanellati. È vietato l’uso di fucili a ripetizione semiautomatica la cui capacità del serbatoio sia superiore a due colpi, fucili con canna ad anima rigata per la caccia vagante (salvo la caccia di selezione), armi da sparo con silenziatore, armi da sparo munite di dispositivi per il tiro di precisione.

Sono proibite numerose modalità di caccia ritenute incompatibili con la tutela della fauna: l’uso di esche o bocconi avvelenati, le trappole, i lacci, le reti, le tagliole, i vischio, le panie, gli archetti, i congegni elettrici ed elettronici per uccidere o stordire. Vietata anche la caccia con l’ausilio di autoveicoli a motore, natanti a motore, aeromobili, nonché l’uso di richiami acustici a funzionamento meccanico, elettromagnetico o elettromeccanico. L’articolo 21 vieta inoltre la caccia in determinate condizioni, come durante la notte (da un’ora dopo il tramonto fino a un’ora prima del sorgere del sole), sui terreni coperti in tutto o in maggior parte di neve, e l’uso di fonti luminose, specchi, dispositivi per illuminare i bersagli.

Il DDL 1552/2025 propone alcune modifiche significative in questo ambito. L’articolo 8 del disegno di legge introduce la possibilità di utilizzare strumenti ottici e optoelettronici nella caccia di selezione agli ungulati, escludendo solo quelli che costituiscono materiale di armamento militare ai sensi della legge 185/1990. La motivazione addotta per la modifica riguarda ragioni di sicurezza e la riduzione del rischio di incidenti, consentendo un puntamento più preciso e riducendo l’errore umano. Inoltre, l’articolo 14 del DDL, inoltre, consente la caccia sui terreni coperti di neve per l’attuazione della caccia di selezione agli ungulati e per la braccata al cinghiale, modificando il divieto attualmente vigente. Queste proposte riflettono un orientamento verso una maggiore flessibilità nell’uso delle tecnologie e nell’adattamento delle modalità venatorie alle esigenze di gestione della fauna selvatica, particolarmente per quanto riguarda il contenimento delle popolazioni di ungulati.


Responsabilità dei Cacciatori

Responsabilità Amministrativa 

La Legge 157/92 prevede un articolato sistema di sanzioni amministrative per le violazioni delle norme venatorie, disciplinate dall’articolo 31. Le sanzioni pecuniarie variano in base alla gravità dell’infrazione: da 150 a 900 euro per chi esercita la caccia senza avere stipulato la polizza assicurativa obbligatoria, da 200 a 1.200 euro per chi caccia in zone vietate o senza tesserino regionale, da 500 a 2.000 euro per chi abbatte fauna in periodi non consentiti. Alle sanzioni pecuniarie si accompagna spesso la sospensione della licenza di caccia, che può variare da uno a tre anni a seconda della violazione commessa.

Le sanzioni amministrative più severe riguardano la caccia di specie protette, l’uso di mezzi vietati e la violazione dei limiti di carniere. In caso di recidiva, le sanzioni vengono aumentate fino al triplo e può essere disposta la revoca della licenza di caccia. Gli organi preposti all’accertamento delle violazioni amministrative sono la Polizia Provinciale, il Corpo Forestale dello Stato (ora Carabinieri Forestali), le Guardie Venatorie Volontarie riconosciute e gli agenti di polizia locale. Il provento delle sanzioni amministrative è destinato in parte alle Regioni per finanziare attività di tutela e gestione faunistica.

Il DDL 1552/2025 introduce modifiche al regime sanzionatorio amministrativo. L’articolo 17 del disegno di legge elimina la sanzione prevista per chi esercita la caccia in forma diversa da quella scelta (la cosiddetta "opzione caccia"), coerentemente con l’abolizione di tale obbligo proposta all’articolo 7. Inoltre, viene introdotta una nuova sanzione amministrativa pecuniaria da 150 a 900 euro per chi impedisce, ostacola o rallenta le attività di controllo della fauna selvatica previste dai piani di gestione, questo, nella tesi dei proponenti del disegno di modifica, per rispondere all’esigenza di garantire l’attuazione dei piani di controllo, particolarmente rilevanti per contrastare la diffusione della peste suina africana e gestire le popolazioni di ungulati in sovrannumero.

Responsabilità Penale 

L’articolo 30 della Legge 157/92 prevede un sistema di sanzioni penali per le violazioni più gravi della normativa venatoria, configurando specifici reati venatori. Le fattispecie più rilevanti includono l’arresto da tre mesi a un anno e ammenda da 1.032 a 6.197 euro per chi abbatte, cattura o detiene mammiferi o uccelli protetti, oppure per chi distrugge o danneggia deliberatamente nidi e uova. La stessa pena è prevista per chi esercita la caccia con mezzi vietati (come trappole, lacci, veleni) e per chi esercita la caccia di frodo, ovvero senza licenza o in zone vietate durante periodi di divieto generale.

Particolarmente severe sono le sanzioni per la caccia a specie appartenenti alla fauna selvatica particolarmente protetta, quali l’aquila reale, il grifone, l’avvoltoio, il falco pellegrino, il lupo, l’orso e la lince. In questi casi, oltre alle pene detentive e pecuniarie, è prevista la confisca obbligatoria delle armi, dei mezzi e degli animali catturati o abbattuti. 

Il sistema penale prevede inoltre circostanze aggravanti per determinate modalità di commissione del reato. La Cassazione ha elaborato negli anni un’ampia giurisprudenza in materia, chiarendo ad esempio che sussiste il reato di continuazione quando un soggetto si dedica sistematicamente al bracconaggio, compiendo più reati in attuazione di un medesimo disegno criminoso. I casi di condanna per reati venatori sono numerosi: nel 2024, le cronache hanno riportato il caso di un bracconiere pluripregiudicato sorpreso con un fucile vicino a una scuola pubblica a Forio (Napoli), in possesso di uccelli di specie protette conservati in un freezer. La responsabilità penale del cacciatore peraltro rimane personale e non può essere trasferita alle compagnie assicurative, che rispondono solo per gli aspetti civilistici del danno.

Responsabilità Civile

L’articolo 12 della Legge 157/92 stabilisce l’obbligo per tutti i cacciatori di stipulare una polizza assicurativa per la responsabilità civile verso terzi derivante dall’esercizio dell’attività venatoria. L’assicurazione deve coprire i danni causati a persone, cose e animali durante l’attività di caccia o durante gli spostamenti con armi e munizioni. I massimali minimi sono fissati per legge: attualmente devono garantire coperture adeguate per ogni persona coinvolta e per i danni a cose o animali. L’assenza della polizza assicurativa comporta, oltre alla sanzione amministrativa, l’impossibilità di esercitare legalmente l’attività venatoria.

La responsabilità civile del cacciatore trova fondamento nell’articolo 2050 del Codice Civile, che disciplina la responsabilità per l’esercizio di attività pericolose. La caccia è considerata un’attività intrinsecamente pericolosa per la natura dei mezzi impiegati (armi da fuoco), determinando una presunzione di responsabilità in capo al cacciatore: chi cagiona danno ad altri durante l’attività venatoria sarà tenuto al risarcimento, salvo che provi di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno. Il Tribunale di Tivoli, con sentenza n. 1698 del 26 novembre 2021, ha ribadito questa presunzione di responsabilità in caso di incidente durante una battuta di caccia, affermando che spetta al cacciatore dimostrare di aver agito con la massima diligenza.

I danni risarcibili comprendono lesioni fisiche alle persone (con conseguente diritto al risarcimento del danno biologico, patrimoniale e morale), danni a proprietà private (veicoli, abitazioni, colture agricole), uccisione di animali domestici o di fauna non cacciabile. Le statistiche indicano che gli incidenti di caccia, pur rappresentando una percentuale limitata dell’attività venatoria complessiva, causano ogni anno numerosi casi di feriti gravi e decessi. Nel caso in cui il fatto dannoso sia commesso da un cacciatore privo di assicurazione, interviene il Fondo di garanzia per le vittime della caccia, gestito dalle compagnie assicurative, che garantisce il risarcimento al danneggiato salvo poi rivalersi sul cacciatore inadempiente. La giurisprudenza civile ha chiarito che il danneggiato può agire direttamente nei confronti della compagnia assicurativa del cacciatore responsabile, anche se l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile venatoria non determina un’obbligazione diretta dell’assicuratore verso il terzo, come precisato dalla Cassazione con sentenza n. 3503/1991.


Strumenti di Controllo e Prevenzione

Licenze e Requisiti per la Caccia

Per esercitare l’attività venatoria in Italia è necessario ottenere la licenza di porto di fucile per uso di caccia, rilasciata dalla Questura competente per territorio. I requisiti per l’ottenimento della licenza sono stabiliti dall’articolo 22 della Legge 157/92 e comprendono: maggiore età, cittadinanza italiana o di uno Stato membro dell’Unione Europea, assenza di condanne per delitti non colposi o per contravvenzioni concernenti la disciplina delle armi e degli esplosivi, assenza di provvedimenti di prevenzione e di misure di sicurezza personali. È inoltre necessario superare un esame di idoneità tecnica che verifica la conoscenza delle norme di sicurezza nell’uso delle armi, della legislazione venatoria, delle specie cacciabili e protette, nonché delle nozioni fondamentali di zoologia, ecologia e rispetto dell’ambiente.

Oltre alla licenza di porto di fucile, il cacciatore deve ottenere l’abilitazione all’esercizio venatorio, rilasciata dalla Provincia, previo superamento di un esame che accerta le conoscenze in materia di fauna selvatica, tutela ambientale, normativa venatoria e sicurezza. Annualmente, il cacciatore deve inoltre iscriversi a un Ambito Territoriale di Caccia (ATC) o a un Comprensorio Alpino, versando una tassa di concessione governativa e stipulando l’assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile. La Regione rilascia il tesserino venatorio regionale, documento sul quale devono essere annotati i capi abbattuti, permettendo così il controllo del rispetto dei limiti di carniere.

Il DDL 1552/2025 introduce alcune semplificazioni nel sistema autorizzatorio. L’articolo 15 del disegno di legge prevede che le abilitazioni all’esercizio venatorio rilasciate dagli Stati membri dell’Unione Europea o dello Spazio Economico Europeo siano equiparate all’abilitazione italiana, in coerenza con i principi di libera circolazione. Inoltre, per la caccia praticata con l’arco o con il falco (falconeria), il DDL propone di eliminare l’obbligo della licenza di porto di fucile, superando un’incongruenza normativa che richiedeva la dimostrazione di capacità tecnica nell’uso di armi da fuoco anche per modalità venatorie che non le impiegano. L’articolo 7 del DDL elimina inoltre l’obbligo di scegliere in via esclusiva una delle forme di caccia previste (caccia vagante, da appostamento fisso, in zona Alpina), permettendo ai cacciatori maggiore flessibilità nell’esercizio dell’attività.

Ruolo della Vigilanza Venatoria

La vigilanza sull’applicazione della normativa venatoria è affidata a diversi corpi e soggetti, individuati dall’articolo 27 della Legge 157/92. Rivestono la qualifica di agenti di polizia giudiziaria per l’accertamento delle violazioni in materia venatoria: gli ufficiali e gli agenti di polizia dello Stato e dell’Arma dei Carabinieri, il personale del Comando Unità Forestali Ambientali e Agroalimentari dell’Arma dei Carabinieri (ex Corpo Forestale dello Stato), gli agenti dipendenti delle Province addetti alla vigilanza venatoria, le guardie comunali e provinciali. A questi si aggiungono le Guardie Venatorie Volontarie, riconosciute dalle Regioni su proposta delle associazioni venatorie nazionali, che operano gratuitamente ma con le medesime funzioni di vigilanza.

Le attività di vigilanza comprendono il controllo del possesso dei documenti necessari per l’esercizio della caccia (licenza, tesserino regionale, assicurazione), la verifica del rispetto dei limiti territoriali e temporali, l’accertamento delle specie abbattute e della loro annotazione sul tesserino, il controllo degli strumenti e delle modalità utilizzate. In caso di accertamento di violazioni, gli agenti procedono alla contestazione immediata o differita dell’illecito amministrativo o penale, al sequestro delle armi, degli animali abbattuti e degli altri mezzi utilizzati per commettere la violazione. La collaborazione tra i diversi corpi di vigilanza è essenziale per garantire un controllo vasto ed efficace sul territorio nazionale.

Il DDL 1552/2025 interviene sulla disciplina della vigilanza venatoria per adattarla ai mutamenti istituzionali intervenuti con la riforma delle Province (Legge Delrio, n. 56/2014). L’articolo 16 del disegno di legge estende le funzioni di vigilanza agli agenti dipendenti delle Regioni, al fine di sopperire alla riduzione degli organici delle Polizie Provinciali. Inoltre, viene precisato che possono svolgere funzioni di vigilanza anche il personale dei corpi e servizi di polizia locale. Quanto alle Guardie Venatorie Volontarie, il DDL specifica che possono essere riconosciute solo quelle appartenenti alle associazioni venatorie nazionali (escludendo quindi quelle locali), al fine di garantire standard formativi e operativi uniformi. Queste modifiche rispondono all’esigenza di rafforzare l’apparato di controllo, particolarmente rilevante alla luce del caso Pilot 2023/10542 aperto dalla Commissione Europea nei confronti dell'Italia in materia di contrasto al bracconaggio.


Tutela Ambientale e Conservazione della Fauna

Bilanciamento tra Caccia e Biodiversità 

La Legge 157/92 è fondata sul principio del bilanciamento tra l’esercizio dell’attività venatoria e la conservazione della biodiversità. L’articolo 1, comma 2, stabilisce esplicitamente che l’attività venatoria è consentita "purché non contrasti con l’esigenza di conservazione della fauna selvatica e non arrechi danno effettivo alle produzioni agricole". Questo principio implica che la caccia non può essere esercitata in modo da compromettere la consistenza delle popolazioni animali, dovendo garantire il mantenimento di livelli ottimali di presenza faunistica sul territorio. La conservazione delle specie ha quindi una posizione di preminenza rispetto all’interesse venatorio, configurandosi come limite invalicabile all’esercizio della caccia.

Il bilanciamento si realizza attraverso diversi strumenti: la limitazione dei periodi di caccia per rispettare le fasi riproduttive e migratorie, l’identificazione tassativa delle specie cacciabili escludendo quelle in stato di conservazione sfavorevole, la fissazione di limiti al carniere giornaliero e stagionale, l’istituzione di zone di protezione. Particolare attenzione è rivolta alla tutela delle specie migratrici, per le quali le direttive europee impongono obblighi stringenti: la caccia può essere praticata solo durante il periodo di ritorno al luogo di nidificazione e non durante la migrazione verso le aree di svernamento, quando gli animali sono più vulnerabili. La giurisprudenza europea ha più volte censurato l’Italia per calendari venatori ritenuti incompatibili con la conservazione dell’avifauna.

Il DDL 1552/2025 introduce una prospettiva diversa nel rapporto tra caccia e biodiversità, già evidente nella modifica del titolo della Legge 157/92, dove accanto alla "protezione" compare il concetto di "gestione" della fauna selvatica. L’articolo 2 del disegno di legge afferma che l’attività venatoria, "esercitata compatibilmente con le istanze di conservazione della fauna selvatica, concorre alla protezione dell’ambiente e all’equilibrio ecosistemico". Questa formulazione riflette una visione che assegna alla caccia un ruolo attivo nella gestione degli ecosistemi, non più solo come attività tollerata nei limiti della conservazione, ma come strumento che contribuisce al mantenimento degli equilibri ecologici. La relazione illustrativa del DDL parla di "considerazione olistica della caccia", intesa come attività che concorre "al contenimento delle specie invasive, al monitoraggio della consistenza faunistica ottimale, alla tutela degli habitat naturali". Questo cambio di paradigma suscita notevoli interrogativi circa la compatibilità con gli obblighi europei in materia di conservazione della natura, pur rimanendo il disegno di legge formalmente vincolato al rispetto delle direttive comunitarie.

Strumenti di Tutela Ambientale

La tutela della fauna selvatica si realizza attraverso un complesso sistema di strumenti previsti dalla normativa nazionale ed europea. I piani faunistico-venatori costituiscono lo strumento principale di programmazione territoriale, elaborati dalle Regioni ai sensi dell’articolo 10 della Legge 157/92. Questi piani individuano le aree destinate alla caccia programmata (almeno il 70-80% del territorio agro-silvo-pastorale) e quelle destinate a protezione della fauna (20-30% del territorio), includendo oasi di protezione, zone di ripopolamento e cattura, centri pubblici e privati di riproduzione. I piani definiscono inoltre le linee di intervento per la conservazione e l’incremento delle popolazioni faunistiche, individuano le zone di reintroduzione e i criteri per la determinazione del risarcimento dei danni causati dalla fauna alle produzioni agricole.

A livello europeo, gli strumenti principali sono la Direttiva 2009/147/CE "Uccelli" e la Direttiva 92/43/CEE "Habitat". La prima stabilisce un regime generale di protezione per tutte le specie di uccelli viventi naturalmente allo stato selvatico nel territorio europeo, vietando la cattura e l’uccisione intenzionale, la distruzione di nidi e uova, il disturbo durante la riproduzione e la migrazione. La Direttiva prevede la possibilità di cacciare solo le specie elencate nell'Allegato II, e solo al di fuori dei periodi di nidificazione e durante le diverse fasi di riproduzione. La Direttiva Habitat istituisce la Rete Natura 2000, un sistema coordinato di aree protette su scala europea, comprendente i Siti di Importanza Comunitaria (SIC), le Zone Speciali di Conservazione (ZSC) e le Zone di Protezione Speciale (ZPS), nelle quali vige un regime particolare di tutela.

Il DDL 1552/2025 introduce modifiche significative al sistema di pianificazione territoriale. L’articolo 6 prevede che le Regioni debbano trasmettere una relazione dettagliata sulle percentuali di territorio destinate a protezione della fauna, specificando "la tipologia dell’area, le ragioni tecnico-scientifiche che hanno condotto alla sua perimetrazione e i livelli di conservazione della fauna selvatica". In caso di inadempienza regionale, il disegno di legge prevede poteri sostitutivi statali. La proposta prevede inoltre che, qualora le percentuali di territorio protetto superino i limiti di legge, possa essere adottato in Conferenza Stato-Regioni un accordo sulle modalità per "riportare all’interno dei limiti previsti" tali percentuali. Secondo quanto specificato nella relazione illustrativa, l’obiettivo è "superare una zonizzazione che, sovente, non riflette l’attuale realtà ambientale" e "garantire una distribuzione ponderata della pressione venatoria sul territorio", pur nel rispetto degli obblighi sovranazionali. Quanto alla Rete Natura 2000, il DDL non modifica direttamente le norme di recepimento delle direttive europee, ma le modifiche proposte in materia di calendari venatori e zone di tutela potrebbero avere implicazioni indirette sulla gestione di questi siti.


Giurisprudenza e Casi Pratici

Sentenze su Reati Venatori 

La giurisprudenza italiana ha affrontato numerosi casi di reati venatori, sviluppando principi interpretativi rilevanti per l’applicazione della normativa. Un caso emblematico riguarda la responsabilità penale per la caccia a specie protette: la Corte di Cassazione, con sentenza n. 14987 del 2016, ha confermato la condanna di un cacciatore che aveva abbattuto un esemplare di albanella reale (specie particolarmente protetta) durante una battuta di caccia al colombaccio. La Suprema Corte ha ribadito che il dolo generico richiesto per la configurazione del reato sussiste anche quando il cacciatore non ha specificamente voluto abbattere una specie protetta, essendo sufficiente la consapevolezza di sparare a un volatile senza averne accertato preventivamente la specie. La sentenza ha sottolineato l’obbligo di identificazione certa della preda prima di effettuare il tiro, configurandosi altrimenti una colpa cosciente che non esclude la responsabilità penale.

In materia di bracconaggio organizzato, la Cassazione con sentenza n. 45623 del 2019 ha affermato la configurabilità del reato continuato per una serie di episodi di caccia illegale a specie protette, riconoscendo l’aggravante dell'uso di mezzi vietati (richiami acustici elettronici e reti). Il caso riguardava un soggetto sorpreso ripetutamente con uccelli protetti (fringuelli, cardellini, verdoni) catturati mediante reti nei pressi della propria abitazione. La Corte ha chiarito che la reiterazione sistematica di condotte di bracconaggio integra un’unica azione criminosa, è pertanto applicabile la pena del reato più grave aumentata fino al triplo. La sentenza ha inoltre confermato la confisca obbligatoria degli strumenti utilizzati per commettere il reato, compresi i richiami elettronici e le reti, nonché degli animali catturati.

Relativamente ai confini delle aree protette, la giurisprudenza ha precisato che l’assenza di segnaletica non esclude la responsabilità del cacciatore. La Cassazione, con sentenza n. 952/1999, ha stabilito che chi esercita la caccia ha l’onere di verificare preventivamente, attraverso la consultazione delle carte territoriali e dei piani faunistico-venatori, se l’area in cui intende operare sia soggetta a vincoli. L’errore sulla localizzazione dei confini di un’area protetta può rilevare ai fini della quantificazione della pena ma non esclude il reato, configurandosi come errore di fatto non scusabile data la particolare natura dell’attività venatoria. Nel 2023, il Tribunale di Verbania ha condannato un cacciatore per aver abbattuto un cervo all’interno del Parco Nazionale della Val Grande, area integralmente protetta, rigettando la difesa basata sull’ignoranza dei confini del parco e sottolineando la facilità di accesso alle informazioni cartografiche attraverso strumenti digitali.

Infine, con la sentenza n. 28551 del 5 agosto 2025, la Corte di Cassazione (Sez. III Penale) ha ribadito un principio fondamentale: le associazioni ambientaliste come il WWF sono pienamente legittimate a costituirsi parte civile per il risarcimento dei danni derivanti da attività venatoria illecita. Nel caso di specie, relativo all’abbattimento di specie non cacciabili, la Corte ha confermato la condanna di due cacciatori, riconoscendo che il danno ambientale non è solo una perdita patrimoniale per lo Stato, ma una lesione di un interesse collettivo di cui le associazioni ambientaliste sono dirette portatrici. Questa sentenza rafforza gli strumenti di tutela della fauna, ampliando la platea dei soggetti che possono agire in giudizio contro i reati venatori.

Casi di Responsabilità Civile

La giurisprudenza civile ha affrontato numerosi casi di danni causati dall'attività venatoria, definendo i principi della responsabilità civile del cacciatore. Un caso significativo è stato deciso dal Tribunale di Tivoli con sentenza n. 1698 del 26 novembre 2021, che ha riconosciuto il risarcimento dei danni a una persona ferita durante una battuta di caccia al cinghiale. Il Tribunale ha applicato il principio della responsabilità oggettiva per attività pericolosa ex articolo 2050 del Codice Civile, affermando che la caccia, per i mezzi impiegati e le modalità di svolgimento, costituisce attività intrinsecamente pericolosa. Conseguentemente, il cacciatore risponde dei danni causati salvo che provi di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno, onere probatorio che come noto è particolarmente gravoso. Nel caso specifico, il cacciatore non era riuscito a dimostrare di aver rispettato tutte le distanze di sicurezza e le precauzioni necessarie durante la battuta, risultando quindi responsabile delle lesioni causate.

In materia di danni a cose, la Corte d’Appello di Milano, con sentenza del 15 marzo 2018, ha confermato il risarcimento al proprietario di un terreno il cui recinto era stato danneggiato durante una battuta di caccia. I giudici hanno ritenuto che l’assicurazione obbligatoria RC caccia copre non solo i danni diretti causati dall’uso dell'arma, ma anche i danni conseguenti all’attività venatoria nel suo complesso, compresi quelli derivanti dal passaggio dei cacciatori e dei cani sul terreno altrui. La sentenza ha precisato che l’obbligo assicurativo previsto dall’articolo 12 della Legge 157/92 ha proprio la funzione di garantire il ristoro dei danni che possono derivare dall’esercizio di un’attività consentita, ma potenzialmente lesiva di interessi altrui.

Un caso particolare riguarda i danni causati da fauna selvatica alle colture agricole. Il Tribunale di Perugia, con sentenza del 22 ottobre 2019, ha accolto la domanda di risarcimento di un agricoltore i cui vigneti erano stati ripetutamente danneggiati da cinghiali, condannando la Regione Umbria al risarcimento per non aver adeguatamente attuato i piani di controllo previsti dalla normativa. Il Tribunale ha stabilito che le Regioni hanno l’obbligo di adottare misure efficaci per contenere le popolazioni di fauna selvatica quando queste causano danni gravi alle produzioni agricole, e la loro inerzia configura responsabilità aquiliana. La sentenza ha precisato che il diritto al risarcimento sussiste quando la Regione, pur essendo a conoscenza della situazione di sovrappopolazione faunistica, non ha adottato tempestivamente i piani di abbattimento selettivo previsti dall’articolo 19 della Legge 157/92. Questo orientamento giurisprudenziale è stato confermato dalla Cassazione con sentenza n. 3692/2020, che ha riconosciuto la responsabilità delle Regioni per omessa o insufficiente gestione della fauna selvatica in danno all’agricoltura.

Infine, la giurisprudenza più recente ha consolidato l’orientamento sulla responsabilità della Pubblica Amministrazione per i danni causati dalla fauna selvatica, inquadrandola nell’ambito della responsabilità oggettiva ex art. 2052 del Codice Civile. Con l’ordinanza n. 17253 del 2024, la Corte di Cassazione ha chiarito in modo definitivo che l’ente a cui le leggi regionali affidano la gestione e il controllo della fauna selvatica (solitamente la Regione) risponde dei danni causati da quest’ultima, a meno che non provi il "caso fortuito". Questo orientamento alleggerisce l’onere della prova per il cittadino danneggiato (ad esempio, un automobilista che ha una collisione con un cinghiale), che non dovrà dimostrare la colpa specifica dell’ente (es. la mancata installazione di recinzioni), ma solo il nesso di causalità tra il comportamento dell’animale e il danno subito.


Conclusioni

La disciplina giuridica della caccia in Italia si caratterizza per un complesso bilanciamento tra la tutela di un’attività tradizionalmente radicata nel tessuto culturale ed economico di molte comunità e l’imperativo costituzionale ed europeo di proteggere la biodiversità e gli ecosistemi naturali anche nell’interesse delle future generazioni. Il quadro normativo vigente, costruito sulla Legge 157/92 e sul recepimento delle direttive europee Habitat e Uccelli, ha cercato di realizzare questo equilibrio attraverso un articolato sistema di limiti territoriali, temporali e modalità di esercizio dell’attività venatoria, accompagnato da un regime di responsabilità amministrativa, penale e civile dei cacciatori e da strumenti di controllo e vigilanza sul territorio.

L’analisi condotta evidenzia come la normativa attuale presenti criticità sia nell’applicazione pratica che nell’adeguamento alle mutate condizioni ecologiche e alle nuove sfide ambientali. L’insufficienza dei controlli, la frammentazione delle competenze tra diversi livelli di governo, la proliferazione di deroghe regionali ai calendari venatori e l’aumento delle popolazioni di alcune specie (particolarmente ungulati) che causano danni all’agricoltura rappresentano nodi problematici del sistema ponendo interrogativi sulla sostenibilità futura dell’attuale modello gestionale. La mancanza di corridoi ecologici e la crescita costante di consumo di suolo, con conseguente riduzione per gli animali della capacità di spostarsi tra le aree e la sempre più frequente presenza di animali selvatici anche in contesti urbani, sono altri nodi che meriterebbero di essere affrontati. 

Proprio in questo senso il DDL n. 1552/2025, attualmente all’esame del Senato, propone una revisione organica della Legge 157/92 che riflette un cambiamento di prospettiva nel rapporto tra attività venatoria e tutela ambientale. L’introduzione del concetto di "gestione" accanto a quello di "protezione" della fauna, il riconoscimento della caccia come "tradizione nazionale" che "concorre alla tutela della biodiversità", l’ampliamento dei periodi e delle modalità di caccia, la possibilità di ridefinire le aree protette e il rafforzamento dei meccanismi di controllo della fauna selvatica delineano un quadro normativo che assegna all’attività venatoria un ruolo più attivo nella gestione degli ecosistemi, ma in un certo senso sembra strizzare l’occhio più alle istanze del mondo venatorio che a quelle della protezione della fauna e della biodiversità. Sebbene le modifiche proposte sembrino voler rispondere a esigenze concrete, come il contenimento delle popolazioni di cinghiali e la prevenzione della peste suina africana, sollevano non pochi interrogativi sulla loro compatibilità con gli obblighi europei di conservazione della natura e sul rischio di un indebolimento delle tutele attualmente garantite alla fauna selvatica.

La sfida per il legislatore consiste nel trovare soluzioni equilibrate che consentano di preservare le tradizioni culturali legate alla caccia, gestire efficacemente le problematiche connesse alla fauna selvatica (danni all’agricoltura, rischi sanitari, sicurezza pubblica) e al contempo garantire il rispetto degli obblighi costituzionali e sovranazionali di tutela degli animali e della biodiversità. Questo obiettivo richiede non solo un quadro normativo coerente e tecnicamente solido, ma anche un rafforzamento sostanziale dei meccanismi di controllo, un incremento della consapevolezza pubblica sull’importanza della conservazione della fauna e un maggiore coinvolgimento della comunità scientifica nella definizione delle politiche gestionali. Solo attraverso un approccio integrato, basato su dati scientifici aggiornati e su una partecipazione informata di tutti i soggetti coinvolti, sarà possibile garantire che il patrimonio faunistico italiano venga effettivamente tutelato per le generazioni future, in piena coerenza con il rinnovato mandato dell’articolo 9 della Costituzione, che impegna la Repubblica a proteggere non solo il paesaggio e il patrimonio storico, ma anche l’ambiente, la biodiversità, gli ecosistemi e gli animali.


FAQ sulla Caccia in Italia

  • Quali animali si possono cacciare in Italia?

L’articolo 18 della Legge 157/92 identifica tassativamente le specie cacciabili. A titolo di esempio tra i mammiferi: lepre comune, lepre bianca, coniglio selvatico, volpe e cinghiale. Per l’avifauna: germano reale, alzavola, marzaiola, canapiglia, mestolone, codone, fischione, moriglione, moretta, starna, pernice rossa, fagiano, quaglia, tortora, colombaccio, allodola, merlo, cesena, tordo bottaccio, tordo sassello, cornacchia grigia, cornacchia nera, gazza, ghiandaia, beccaccia, beccaccino, frullino e pavoncella. Tutte le altre specie non elencate sono protette e non possono essere cacciate in alcun modo. Le Regioni possono regolamentare ulteriormente l’elenco vietando la caccia a determinate specie nel proprio territorio, ma non possono autorizzare la caccia a specie non previste dalla legge nazionale, salvo specifiche deroghe autorizzate dall’ISPRA per motivi di gestione faunistica o prevenzione di danni gravi alle colture.

  • Chi rilascia la licenza di caccia?

La licenza di porto di fucile per uso di caccia è rilasciata dalla Questura competente per territorio di residenza del richiedente, dopo la verifica dei requisiti previsti dall’articolo 22 della Legge 157/92 (maggiore età, assenza di condanne penali, assenza di misure di prevenzione). Per ottenere la licenza è necessario superare un esame di idoneità tecnica che verifica le conoscenze sulle armi, la sicurezza e la normativa venatoria. Oltre alla licenza di porto di fucile, il cacciatore deve conseguire l’abilitazione all’esercizio venatorio rilasciata dalla Provincia o dall’ente territoriale competente, previo superamento di un ulteriore esame sulle specie faunistiche, la tutela ambientale e la normativa venatoria. Annualmente, il cacciatore deve poi iscriversi a un Ambito Territoriale di Caccia (ATC) e ottenere dalla Regione il tesserino venatorio regionale, sul quale annotare i capi abbattuti. La mancanza di uno qualsiasi di questi documenti impedisce l’esercizio legale dell’attività venatoria e comporta sanzioni amministrative.

  • Quali sono le principali sanzioni per caccia illegale?

La Legge 157/92 prevede sia sanzioni amministrative (art. 31) che penali (art. 30). Le sanzioni amministrative pecuniarie variano da 150 a 2.000 euro a seconda della violazione, accompagnate dalla sospensione della licenza di caccia da uno a tre anni. Le violazioni più gravi configurano illeciti penali: l’abbattimento di specie protette è punito con l’arresto da tre mesi a un anno e l’ammenda da 1.032 a 6.197 euro; la stessa pena si applica per la caccia con mezzi vietati (trappole, veleni, reti) e per la caccia di frodo. Per specie particolarmente protette (aquile, lupi, orsi) le pene sono aumentate e accompagnate dalla confisca obbligatoria di armi, mezzi e animali. In caso di recidiva, le sanzioni amministrative vengono triplicate e la licenza può essere revocata definitivamente. 

  • Dove è vietato cacciare?

La caccia è vietata in numerose aree del territorio nazionale. L’art. 21 della L. 157/1992 elenca le zone di divieto permanente: parchi nazionali e regionali, riserve naturali, oasi di protezione, zone di ripopolamento e cattura, aree urbane, giardini pubblici e privati, terreni adiacenti ad abitazioni per un raggio di cento metri, strade, autostrade, ferrovie e relativi argini. Il divieto si estende ai valichi montani interessati dalle rotte di migrazione per un raggio di mille metri. Inoltre, almeno il 20-30% del territorio agro-silvo-pastorale di ogni Regione deve essere destinato a protezione della fauna attraverso zone di divieto. La caccia è vietata anche nei fondi chiusi da muro, rete metallica o altra effettiva chiusura quando i proprietari lo richiedano con apposita segnalazione. Nelle zone umide di importanza internazionale (siti Ramsar) e nelle aree della Rete Natura 2000 (SIC, ZSC, ZPS) la caccia può essere praticata solo con specifiche limitazioni stabilite dagli enti gestori e nel rispetto delle direttive europee Habitat e Uccelli.

  • Come si tutela la biodiversità attraverso la legge sulla caccia?

La tutela della biodiversità è garantita attraverso diversi meccanismi previsti dalla Legge 157/92. Innanzitutto, la fauna selvatica è dichiarata patrimonio indisponibile dello Stato, sottolineando il dovere pubblico di conservazione. La legge limita la caccia alle sole specie il cui stato di conservazione lo consenta, escludendo tassativamente tutte le specie in condizioni sfavorevoli. I periodi di caccia sono fissati in modo da rispettare le fasi riproduttive e migratorie, garantendo che il prelievo venatorio non comprometta la capacità riproduttiva delle popolazioni. Attraverso i piani faunistico-venatori, le Regioni devono destinare almeno il 20-30% del territorio ad aree di protezione dove la caccia è vietata, permettendo alla fauna di riprodursi indisturbata e di irradiarsi nelle aree circostanti. Il sistema prevede inoltre limiti al carniere giornaliero e stagionale, controlli sulla consistenza delle popolazioni attraverso censimenti scientifici coordinati dall'ISPRA, e la possibilità di sospendere o vietare la caccia a determinate specie quando la loro consistenza scende sotto livelli critici. Le direttive europee Habitat e Uccelli, recepite dalla normativa italiana, impongono obblighi ulteriori di tutela per le specie e gli habitat di interesse comunitario, creando un sistema integrato di conservazione che vincola sia il legislatore nazionale che le amministrazioni regionali e locali.

 

Avvocato Elena Capone

Elena Capone