Si può licenziare un lavoratore per malattia?

Quali sono le tutele per il lavoratore in malattia ed in quali casi un'assenza per malattia prolungata può legittimare il licenziamento.

licenziamento per malattia

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1. Periodo di comporto: cos'è

Il codice civile garantisce al lavoratore, il quale non possa lavorare per infortunio o malattia, il diritto alla conservazione del posto di lavoro per un certo lasso di tempo, stabilito dalla contrattazione collettiva, dalla legge, dagli usi o secondo equità. Una volta superato il limite, il datore di lavoro è legittimato a licenziare il dipendente.

Si noti che tale situazione legittima di per sé la chiusura del rapporto di lavoro: non è quindi necessario per il datore di lavoro fornire la prova né del giustificato motivo oggettivo, né dell'impossibilità sopravvenuta – da parte del lavoratore – ad eseguire la prestazione lavorativa, né infine dell'impossibilità di adibire il lavoratore ad altra mansione. Obblighi a cui il datore di lavoro è invece tenuto in altri casi. In altre parole: il datore di lavoro, nella lettera di licenziamento, si limita a riferirsi al superamento del periodo di comporto. Ciò, fra l'altro, implica che in caso di eventuale contenzioso, il giudice dovrà accertare solo se lo stato patologico del lavoratore abbia effettivamente superato il periodo di cui si scrive.

La regola dettata dal codice civile prevale sulla disciplina generale dei licenziamenti, ed a maggior ragione sulle regole relative al recesso per impossibilità sopravvenuta di eseguire la prestazione pattuita: per questa ragione è opportuno un richiamo a queste tematiche.

2. Licenziamento durante il periodo di comporto

La regola appena spiegata tuttavia non vuol dire che il lavoratore malato o infortunato non possa mai essere licenziato prima dello scadere del termine: in linea generale, è ammissibile il licenziamento solo se non è conseguenza della malattia, ma di altre circostanze. Vediamo le ipotesi principali di licenziamento:

  • per motivi disciplinari (cd giusta causa): in caso di gravi violazioni dei doveri del prestatore di lavoro, in particolare in tema di fedeltà e correttezza, tali da minare la fiducia del datore di lavoro, quest'ultima può procedere al "licenziamento in tronco". E questo ben può avvenire anche durante un periodo di assenza per malattia. Da notare che il comportamento scorretto del dipendente, che giustifica il licenziamento, può essere stato posto in essere durante il periodo di malattia
  • per motivi aziendali (cd giustificato motivo oggettivo): si tratta di licenziamenti, spesso collettivi, dovuti a eventi che riguardano la "vita" dell'azienda. Si pensi alla soppressione di alcune mansioni o di interi rami d'impresa, causati da una riorganizzazione imposta da una crisi aziendale;
  • malattia irreversibile del dipendente (giustificato motivo soggettivo): si tratta del caso in cui la malattia o l'infortunio comporta l'impossibilità di un ritorno alla propria mansione del lavoratore. Ciò avviene qualora si accerti che il dipendente, per l'evolversi della patologia, non sarà definitivamente più in grado di riprendere la sua normale attività.
  • Ipotesi similare è quella per cui le particolari modalità di svolgimento della prestazione lavorativa espongono il dipendente ad una inevitabile ricaduta della malattia. In questa seconda ipotesi, è appena il caso di anticipare che ciò è vero solamente se il datore di lavoro fornisce tutte le cautele necessarie in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro (in sostanza il datore di lavoro è "in regola", e non è l'attività lavorativa di per sè ad essere pericolosa o dannosa, ma è il singolo lavoratore ad essere un soggetto particolarmente esposto). Infatti, se è il datore di lavoro ad essere nel torto, subirà, fra le altre, due particolari conseguenze negative in tema di licenziamento:
  1. Il licenziamento sarà illegittimo, se l'impossibilità di eseguire la prestazione o l'inevitabilità dell'aggravamento che la rende di fatto ineseguibile sono dovuti ad un ambiente di lavoro insalubre, insicuro etc. Pertanto, il dipendente che a causa dell'attività lavorativa e della conseguente malattia perde definitivamente la capacità di svolgere la sua mansione non può essere licenziato, a prescindere dal periodo di comporto, pena il risarcimento del danno;
  2. i giorni di assenza per malattia eventualmente goduti dal lavoratore non saranno computati all'interno del periodo di comporto (chiaramente ciò vale solo per le assenze legate alle specifiche patologie derivanti dall'ambiente di lavoro o dalla prestazione eseguita). In sostanza il lavoratore che è in malattia a causa delle condizioni di lavoro può rimanere assente finché non guarisce senza temere di perdere il posto di lavoro;

Infine, secondo recente giurisprudenza, ai casi appena descritti di malattia derivante dalla prestazione lavorativa o dall'ambiente di lavoro – e quindi tali da impedire sia licenziamento per giustificato motivo soggettivo che il conteggio delle assenze ai fini del periodo di comporto – vanno equiparati i casi di mobbing; il lavoratore che va in malattia per le vessazioni subite sul posto di lavoro è tutelato allo stesso modo. Chiaramente, in simili casi sarà il lavoratore a dover dimostrare il comportamento dannoso del datore di lavoro ed il nesso causale con lo stato patologico.

3. Esercizio del diritto di recesso

Si è detto che, come regola base, il licenziamento intimato prima della fine del periodo di comporto, e basato solo su tale fatto, è nullo. É proprio il prolungarsi dell'assenza oltre il termine (tipicamente 180 giorni) a legittimare il recesso del datore di lavoro. Questo tuttavia non implica che il rapporto di lavoro termina automaticamente dal momento del superamento del termine predetto: il datore di lavoro ha la facoltà di recedere (e, se intende farlo, deve rispettare le forme imposte dalla legge), non l'obbligo. Ben può ritenere che, nonostante la prolungata assenza, il dipendente sia in ogni caso necessario alla sua organizzazione produttiva.

Il datore quindi può recedere o rinunciare ad esercitare tale diritto. Qualora decida di recedere, il licenziamento non deve per forza essere immediato: il datore ha la facoltà consentire al proprio dipendente di rientrare in ufficio, per valutare se ha comunque interesse a far proseguire il rapporto, e poi eventualmente licenziarlo. La ripresa dell'attività lavorativa quindi non può essere considerata automaticamente una rinuncia al diritto di recesso.

Tuttavia è pur vero che, in relazione alla possibilità di differire nel tempo il licenziamento per superato periodo di comporto, occorre tenere a mente due aspetti rilevanti:

  • pur se non immediato, deve rimanere il legame (cd nesso di causalità) fra il licenziamento e il decorso del termine. In caso contrario saremmo davanti ad altre ipotesi di recesso del datore di lavoro, che seguono una disciplina diversa;
  • l'eventuale differimento temporale fra il rientro del lavoratore assente e la decisione di concludere il rapporto non deve essere tale da indurre il dipendente nella condizione di fare legittimo affidamento sulla prosecuzione del rapporto. Vale a dire che il datore di lavoro non deve "illudere" il lavoratore, con un’attesa troppo lunga. In altre parole, non può tenere il lavoratore in sospeso troppo a lungo;

Pertanto, da un lato il licenziamento non è automatico, e l'azienda è libera di scegliere se conservare il posto del lavoratore o recedere; ed il datore può anche far tornare il dipendente in azienda per valutare se la sua prestazione è ancora utile, e riservarsi il diritto di recesso in un secondo momento.

É bene notare che tale specificazione vincola il datore di lavoro che, nell'eventuale contenzioso che dovesse sorgere sulla liceità del licenziamento, potrà riferirsi esclusivamente alle giornate di assenza "contestate" al dipendente con la lettera, dovendo in simili casi il giudice limitarsi a verificare se i giorni di assenza dedotti come "motivazione" del licenziamento sono stati conteggiati correttamente, rispettando le regole del contratto collettivo applicabile. In altre parole, non è possibile cambiare i giorni a cui si riferisce il superamento del periodo di comporto, e se lo si intende fare sarà necessaria una nuova lettera di licenziamento.

Si è detto poi che il licenziamento è legittimo per il solo fatto del superamento del periodo di comporto: questo implica che, a differenza di tutte le altre ipotesi di licenziamento, il datore non è tenuto a motivare ulteriormente la sua decisione, essendo appunto sufficiente riferirsi al superamento del periodo di comporto ed eventualmente specificando quali giorni ha conteggiato.

Un'eventuale recesso intimato prima che sia decorso il periodo di comporto è da considerarsi nullo, ossia privo di qualsiasi effetto, e ciò anche qualora, in seguito, il lavoratore effettivamente superi il termine. Sarà in ogni caso necessaria una seconda comunicazione.

3.1 Tempestività del licenziamento

Si è anticipato che il licenziamento non è automatico, e che il datore di lavoro può esercitare la facoltà di recedere anche in un secondo momento (rispetto al rientro del dipendente sul posto di lavoro), valutando preventivamente se la prestazione lavorativa sia ancora utile. Ma si è anche detto che il datore non può attendere troppo, sia per mantenere il legame fra superamento del periodo e licenziamento (e non sconfinare in altre ipotesi di recesso), sia per non indurre il lavoratore, legittimamente, a credere di aver mantenuto comunque il posto di lavoro.

Secondo la Cassazione, infatti, tale licenziamento va intimato senza ritardo, nell'immediatezza dell'evento, altrimenti il licenziamento sarebbe illegittimo. Tale posizione è conforme ad un orientamento consolidato dei giudici, che più volte hanno affermato l'illegittimità di un simile licenziamento: per il datore di lavoro, quindi, aspettare "troppo" implica una rinuncia tacita al diritto di recesso.

La tempestività del licenziamento va valutata dal giudice di merito, caso per caso, tenendo conto dell'esigenza della controparte aziendale:

  • di valutare attentamente la sequenza delle assenze, al fine di stabilire se è stato effettivamente superato il periodo di comporto in base al contratto collettivo applicabile;
  • di consentirgli una valutazione dell'eventuale interesse aziendale alla prosecuzione del rapporto nonostante le varie assenze del

Sulla questione della tempestività e della rinuncia al licenziamento per inerzia del datore di lavoro, la Cassazione ha recentemente statuito che, a differenza del recesso per giusta causa (dove l'immediatezza del licenziamento è finalizzata a tutelare la completezza del diritto di difesa del dipendente), nel recesso per superamento del periodo di comporto la tempestività non può risolversi in un dato temporale fisso e determinato a priori, ma deve essere stabilita dal giudice di merito, caso per caso, a seguito di una valutazione sulla congruità della stessa. In altre parole, solo considerando il contesto concreto e le circostanze specifiche della vicenda, il giudice potrà pronunciarsi sulla questione "il licenziamento è illegittimo perché tardivo rispetto al superamento del periodo di comporto"; valutazione di merito che, peraltro, non lascia spazio a ricorsi in sede di legittimità se adeguatamente motivata dal giudice di merito.

Rispetto alla questione, la stessa Corte ha però anche sostenuto che l'indagine sulla compatibilità dell'inerzia con la volontà di recedere vada sostenuta in base a criteri di rigore attenuato, per bilanciare l'interesse del lavoratore alla certezza dell'esito del licenziamento con quello del datore di lavoro riguardo l'opportunità di proseguire il rapporto

4. Durata del periodo di comporto

La legge regola la durata del periodo di comporto per gli impiegati, in base all'anzianità di servizio del dipendente. Nello specifico il periodo di comporto è pari a:

  • 3 mesi quando l'anzianità non supera 10 anni
  • 6 mesi quando l'anzianità è maggiore di 10 anni

I contratti collettivi possono contenere regole più favorevoli ai lavoratori.

Per gli operai, invece, la durata del periodo di comporto è stabilita esclusivamente dai CCNL.

5. Calcolo del periodo di comporto

Esistono due modi per calcolare il periodo di comporto, e due modi di individuare il periodo di riferimento, ed è il CCNL a di individuare il metodo da utilizzare.

Il comporto può essere riferito:

  • all'anno di calendario: si calcolano le assenze per malattia nell'anno compreso fra l'1/01 ed il 31/12;
  • all'anno solare: si considera un lasso temporale di 365 giorni, che decorrono dal primo episodio di assenza per

Il contratto collettivo, inoltre, individua la metodologia di calcolo dei giorni, che può essere:

  • comparto secco: il periodo di comporto è riferito ad un'unica ed ininterrotta assenza per malattia. In sostanza, si limita la durata massima consentita per ciascun singolo periodo di assenza per malattia;
  • comparto frazionato (o per sommatoria): si tiene conto di tutte le assenze per malattia, anche diverse fra loro, di cui il lavoratore ha goduto nel periodo di

In merito, occorre considerare che:

  • si contano anche i giorni festivi e non lavorativi che cadono all'interno del periodo di malattia certificato dal medico. Ciò vale anche quando i certificati sono più di uno, in sequenza (nel senso che se un certificato arriva all'ultimo giorno che precede il riposo settimanale - tipicamente la domenica - ed il successivo decorre dal primo giorno lavorativo successivo alla domenica, il periodo è considerato unico. In pratica si presume che la malattia sia continuata anche nei giorni non lavorativi, per i quali ovviamente non si risulta assenti per malattia;
  • si contano anche i giorni non lavorati per altri motivi (ad es. per sciopero).

Va poi considerato che la legge non distingue fra assenza per malattia e per infortunio, pertanto salvo quanto previsto dai contratti collettivi, che possono contenere condizioni più favorevoli ai lavoratori, le assenze in questione si sommeranno fra loro. Per fare un esempio, se dopo 10 giorni di malattia il lavoratore si rompe una gamba e rimane assente per altri 40 giorni, totalizzerà complessivi 50 giorni dell'anno in esame, a meno che il suo CCNL di riferimento non distingua le due ipotesi (prevedendo due periodi di comporto, uno per la malattia ed uno per l'infortunio).

5.1 Interruzione dell'assenza, ferie ed aspettativa non retribuita

Il lavoratore, la cui patologia lo porti a superare il periodo di comporto e quindi a rischiare il posto di lavoro, ha la possibilità di usufruire dei giorni di ferie eventualmente maturati, in modo da non raggiungere il limite del periodo di comporto. In tal caso infatti il dipendente non risulta assente per malattia (non riceve più l'indennità relativa), quindi i giorni di ferie non vengono conteggiati; e tale possibilità è stata confermata dalla suprema Corte.

La richiesta di ferie deve però:

  • essere scritta;
  • indicare i giorni a partire dal quale si intende convertire la malattia in ferie;
  • essere presentata tempestivamente al datore di lavoro, prima della scadenza definitiva del periodo di comporto.

Se è vero che il datore ha, in via generale, il potere di rifiutare le ferie in un certo periodo (le ferie in linea di massima vanno concordate, e possono essere negate per particolari esigenze aziendali), è anche vero che il datore di lavoro, nel concedere un dato periodo di ferie o negarlo, è tenuto a valutare comparativamente gli interessi contrastanti (ad andare in ferie contro il mantenere attiva la produzione): e che, nell'ipotesi in questione, al "normale" interesse ad andare in ferie si aggiunge quello a conservare il posto di lavoro (evitando il superamento del periodo di comporto).

Pertanto, l'eventuale rifiuto della richiesta di ferie dovrà essere adeguatamente motivato.

 Un'alternativa, volta ad evitare il superamento del periodo di comporto, è anche l'aspettativa non retribuita, che alcuni contratti collettivi prevedono proprio allo scadere del termine di comporto. In simili casi, il licenziamento di cui si scrive potrà essere legittimamente comunicato solo dopo tale periodo di aspettativa, se il dipendente non rientra sul posto di lavoro.

Emilio Stacchetti

Fonti normative

Art. 2110 cod. civ.

Cass. n. 1404 del 2012; n. 144471 e 22538 del 2013, n. 2835 del 2014, n. 16462 e 17837 del 2015,

  1. 10666 del 2016, n. 12568, 15095 e 25535 del 2018, Ord. n. 29402 del 2018, n. 1438/2008.

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