Risarcimento per mancato guadagno: cos’è e come si prova

Il mancato guadagno, definito anche “lucro cessante”, è la perdita economica che subisce il patrimonio del creditore a causa della mancata, ritardata o inesatta prestazione da parte del creditore.

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Il mancato guadagno costituisce, insieme alla perdita economica, il danno patrimoniale del soggetto danneggiato.

L’art. 1223 codice civile precisa infatti, che “il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore (danno emergente) come il mancato guadagno (lucro cessante), in quanto ne siano conseguenza immediata”.

Nelle righe che seguono verrà esaminata la disciplina del mancato guadagno (lucro cessante) per comprendere di cosa si tratta e come dovrà esser provato in sede di giudizio.

1. Cos’è il mancato guadagno

Il lucro cessante altro non è che il mancato guadagno patrimoniale che il creditore avrebbe dovuto conseguire se l’obbligazione fosse stato regolarmente adempiuta. Il lucro cessante dunque, è una ricchezza che non si è prodotta nel patrimonio del danneggiato, che viceversa, si sarebbe prodotta se l’obbligazione fosse stata adempiuta o esattamente adempiuta.

In pratica, il danno patrimoniale nella sua forma del lucro cessante si realizza quando il danneggiato non può utilizzare il bene oggetto dell’obbligazione (nelle ipotesi, ad esempio, di un bene quale strumento di lavoro necessario), quando non può realizzare il rapporto contrattuale (nelle ipotesi, ad esempio, della diminuzione o perdita della capacità lavorativa).

2. La prova del mancato guadagno

Il mancato guadagno, così come il danno subito, deve esser provato. A tal proposito, la Corte di Cassazione ha sempre precisato che “in tema di responsabilità civile da inadempimento del contratto, non è sufficiente la prova dell’inadempimento del debitore, ma deve altresì esser provato il pregiudizio effettivo e reale incidente nella sfera patrimoniale del contraente danneggiato e la sua entità”.

Con particolare riferimento al mancato guadagno, la stessa Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare che il danneggiato dovrà fornire la prova, sia pure indiziaria, dell’utilità patrimoniale che, in base ad un giudizio rigoroso di probabilità, avrebbe potuto conseguire se l’obbligazione fosse stata correttamente adempiuta. In tal modo la Cassazione ha escluso dalla risarcibilità del danno i mancati guadagni meramente ipotetici. In pratica, per ritenere sussistente la prova del mancato guadagno, il danneggiato deve aver provato che se l’obbligazione fosse stata correttamente adempiuta avrebbe percepito dei guadagni che l’inadempimento gli ha impedito di conseguire.

3. La risarcibilità del mancato guadagno

La risarcibilità del mancato guadagno nel suo ammontare risulta un’operazione complessa in quanto il giudice dovrà ipotizzare quanto il danneggiato avrebbe potuto guadagnare se l’obbligazione fosse stata adempiuta correttamente.

La giurisprudenza ha, nel corso del tempo, cercato di fissare alcuni criteri univoci al fine di terminare l’ammontare del danno da lucro cessante in maniera più equa possibile. Ad esempio, in caso di danno patrimoniale del lavoratore, la giurisprudenza distingue il mancato guadagno del lavoratore dipendente dal mancato guadagno del lavoratore autonomo. In caso di lavoratore dipendente, il lucro cessante è calcolato il base al reddito da lavoro maggiorato dai redditi esenti e dalle detrazioni previste dalla legge; in caso di lavoratore autonomo invece, il lucro cessane è calcolato sulla base del reddito netto più elevato tra i redditi dichiarati dal danneggiato negli ultimi tre anni, prendendo a riferimento la base imponibile che il lavoratore ha dichiarato negli ultimi tre anni ai fini dell’imposta sulle persone fisiche (IRPEF).

La prova del mancato guadagno è dunque, una prova rigorosa, consistente in un giudizio di probabilità (e non di mera possibilità) che dovrà formulare il giudice per la quantificazione dello stesso.

Zaira Troisi

Fonti normative

Articolo 1223 codice civile

Cassazione, sentenza 5 marzo 1973, n. 608.

Cassazione, sentenza 5 aprile 2007, n. 8520

Cassazione, sentenza 20 maggio 2011, n. 11254.

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