Quando un marchio è definito forte o debole?

La forza di un marchio dipende dalla sua capacità di contraddistinguere un prodotto o un servizio di un’impresa rispetto a quelli delle altre imprese. Tanto più forte è il marchio, tanto più esso sarà tutelabile da imitazioni e contraffazioni

marchio forte o debole

1. Premessa

Il marchio è un segno di identità dell’impresa posto a garanzia della provenienza e della qualità dei suoi prodotti o servizi.

Nella scelta del proprio marchio, l’imprenditore (o il privato che presti il consenso all’utilizzo del suo marchio da parte di una impresa) potrebbe decidere di utilizzare una parola, un disegno, una serie di numeri, una combinazione di colori, addirittura un suono o un profumo. La legge non pone particolari limiti alla fantasia.

Ciò che è importante, affinché un marchio sia registrabile, è che esso rispetti i requisiti di liceità e novità e che sia dotato di capacità distintiva.

Quest’ultimo requisito mira a garantire che un segno sia idoneo, agli occhi del consumatore, a collegare il prodotto o il servizio contrassegnato come proveniente da una determinata impresa.

2. La differenza fra marchi deboli e marchi forti

La legge non ci fornisce una definizione di marchio debole, né di marchio forte.

La distinzione fra le due specie in esame è stata elaborata dalla giurisprudenza allo scopo di spiegare in che misura un marchio dotato di scarso potere distintivo sia tutelabile da fenomeni di contraffazione o di imitazione.

Secondo un orientamento ormai consolidato, il marchio “debole” è quello che possiede una capacità distintiva molto bassa in quanto legato alle caratteristiche del prodotto/servizio a cui si riferisce.

Normalmente, esso è il frutto di una elaborazione, anche minima, della denominazione generica o descrittiva del bene o servizio che mira a contraddistinguere.

Ad esempio, i marchi “Divani & Divani”, “Poltronesofà”, “Condiriso”, “RadioDeejay” utilizzano parole d’uso comune, oppure che descrivono la funzione del bene, aventi un'intima connessione con il prodotto o il servizio che connotano.

Il marchio “forte” ha una notevole capacità distintiva, ed è costituito il più delle volte da nomi di fantasia, o comunque da segni che non hanno attinenza col prodotto/servizio contraddistinto.

Si pensi al marchio “Diesel” che contrassegna capi di abbigliamento, al marchio “Nutella” che indica la crema di cioccolata e nocciola spalmabile o, ancora, al marchio “Apple”, nome inglese di un frutto, usato per contraddistinguere prodotti come personal computer e smartphone.

Si noti bene che al fine di valutare se si tratti di un marchio "forte" o "debole" è necessario verificare se vi sia una relazione tra il prodotto contraddistinto ed i segni che costituiscono il marchio.

Potrebbe capitare, infatti, di riconoscere un marchio come "forte" anche se costituto da parole generiche o d'uso comune, ma slegate dalle qualità e funzioni del prodotto o servizio (es. "Clic Clac", per contrassegnare biancheria per la casa).

Che sia costituito da segni deboli o forti, il marchio assolve alla sua funzione primaria: quella di garantire l’origine e la qualità dei beni o dei servizi di un’impresa e di trasferire queste informazioni al consumatore, il quale orienterà le proprie scelte di acquisto proprio sulla base di tali informazioni.

Per ammettersi la validità di un marchio, dunque, è sufficiente che questo abbia un carattere distintivo minimo.

Ciò trova conferma nell’art. 13 del Codice della Proprietà Industriale, che qualifica come segni privi di capacità distintiva

  • quelli che consistono esclusivamente in segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio;
  • quelli costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive, ad es. che indichino la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica o l'epoca di fabbricazione.

La ragione risiede nella necessità di non concedere l'uso esclusivo di parole appartenenti al linguaggio comune o descrittive del prodotto e delle sue qualità, attribuendo al titolare delle stesse un ingiustificato vantaggio.

Pertanto, come si è visto, un marchio debole per poter essere valido non può consistere esclusivamente in un segno comune, generico o descrittivo del bene, ma deve derivare da una elaborazione o modificazione di esso, anche se minima.

A titolo esemplificativo, i segni descrittivi possono costituire validi marchi qualora:

  • siano sufficientemente modificati per discostarsi dal segno o dal termine originario (ad esempio, "Mesulid" per un farmaco a base di nimesulide);
  • integrino un marchio che contiene anche altri elementi dotati di capacità distintiva (es. Melinda);
  • siano combinati con altri segni o termini descrittivi in modo tale che la combinazione faccia acquisire carattere distintivo al marchio (es. Lemonsoda, per una bevanda gasata al limone)

È bene evidenziare, tuttavia, che la valutazione circa la loro ammissibilità passerà sempre attraverso una verifica da effettuarsi caso per caso.

3. Le tutele

Che cosa cambia, quindi, nella pratica tra marchio forte o debole? La differenza si ha in sede di tutela del marchio.

Com’è noto, la registrazione di un marchio attribuisce al suo titolare il diritto esclusivo di utilizzazione dello stesso a fini commerciali, precludendo alle imprese concorrenti determinati comportamenti, vale a dire l’uso sul mercato di segni simili che siano con questo confondibili. La registrazione, quindi, garantisce una protezione efficace contro l’imitazione e la contraffazione del proprio marchio.

I marchi forti, essendo arbitrari o di fantasia e quindi privi di collegamento, anche solo evocativo, con il prodotto che contraddistinguono, risultano protetti in tutti gli elementi che li compongono, con la conseguenza che sono in grado di opporsi anche nei confronti di marchi successivi che presentano variazioni o modificazioni anche lievi.

I marchi successivi, cioè, devono distinguersi al punto da evitare il rischio di confusione con il marchio anteriore.

I marchi deboli, invece, presentando un forte collegamento con il prodotto che contraddistinguono, sono in grado di opporsi ai marchi successivi solo se riprodotti integralmente o imitati in modo prossimo, essendo al contrario sufficienti anche lievi variazioni o modificazioni nei marchi successivi per escludere la confondibilità con il precedente.

In altre parole, nel caso di un marchio debole il titolare potrà vantare l'esclusiva solo sull'elemento di fantasia, il quale, distinguendolo seppur minimamente dal termine meramente descrittivo, conferisce validità al marchio, lasciando in questo modo a tutti gli imprenditori la facoltà di utilizzare il termine generale o descrittivo del prodotto.

Ai diversi competitor basterà applicare lievi varianti al marchio per evitare la confondibilità e crearne lecitamente uno nuovo.

In realtà, le regole per accertare la violazione dei diritti su un marchio altrui richiedono sempre una valutazione caso per caso, sulla base dei criteri indicati dal legislatore, che non si presta alle generalizzazioni ed ai meccanicismi, e la limitazione nella tutela dei marchi contenenti elementi non distintivi deriva, come detto, dall'esigenza di lasciare questi elementi (ed in particolare le componenti descrittive) a disposizione di tutti gli operatori del settore.

In definitiva, affinché la tutela sia più estesa, la novità e l'originalità debbono essere idonee a conferire al marchio il carattere di marchio forte; più il marchio è forte, più è facilmente tutelabile dalle contraffazioni in quanto meno "attaccabile"; il marchio debole, invece, cioè quello dotato di minore novità ed originalità, sarà meno facilmente proteggibile dalle contraffazioni poiché per escluderne la contraffazione saranno sufficienti anche minimi elementi di differenziazione.

4. Marchio debole e secondary meaning

Un altro importante aspetto da evidenziare quando si parla di marchi deboli riguarda il processo di secondarizzazione, termine mutuato dal lessico anglosassone (c.d. “secondary meaning”).

Vi sono alcuni casi in cui il marchio debole (o addirittura nullo) può diventare forte, acquisendo capacità distintiva propria tramite il suo uso costante per un determinato periodo di tempo. Tempo che deve essere sufficientemente lungo per far acquisire al marchio un secondo significato di segno distintivo di prodotto proveniente da una determinata impresa.

Verificandosi il suddetto fenomeno, il marchio inizialmente poco tutelabile o non tutelabile affatto mantiene il proprio significato, ma ne acquista anche un altro di segno distintivo della provenienza del prodotto da una determinata impresa.

Naturalmente, il consumatore e la sua percezione sono la scriminante. È l'associazione che si crea nella mente del consumatore tra il segno e l'impresa di provenienza che supera l'identità tra il segno (una volta) debole e il prodotto.

L'ordinamento si limita a recepire l'acquisita distintività del segno: si parla, in proposito, di riabilitazione del segno.

Per stabilire se il marchio ha acquisito il "secondo significato" richiesto per farlo uscire dalla debolezza e, quindi, per farlo accedere alla maggior tutela, andrà, dunque, verificata la mutata percezione del segno da generico a specifico nella mente del consumatore medio.

La giurisprudenza ha evidenziato come in alcuni casi tale fenomeno si sia verificato a seguito dell'ampia diffusione che alcuni marchi hanno raggiunto tra il pubblico su larga scala. Il riferimento è rappresentato, ad esempio, dai marchi "Estatè", Lemonsoda", e "Oransoda", noti su tutto il territorio mondiale e richiamanti gli ingredienti che compongono i prodotti dagli stessi contrassegnati.

Essi hanno acquisito una forte capacità distintiva in ragione dell'intenso uso commerciale e pubblicitario che ne è stato fatto e che si è protratto nel tempo.

Ben può un marchio divenuto distintivo per effetto della c.d. secondarizzazione conservare anche un uso generico e comune, posto che, con tale fenomeno, la parola comune, mentre mantiene il significato originario, al contempo ne assume uno secondario di segno distintivo del prodotto nella mente dei consumatori, che finiscono per attribuire al termine utilizzato non solo il significato originario, ma anche quello di indicatore della provenienza dei prodotti da una determinata impresa, cui esso viene spontaneamente associato.

In sostanza, il secondary meaninig dà luogo alla equiparazione della tutela di un marchio originariamente forte a quella di un marchio in principio debole, ma che è diventato forte per effetto della diffusione commerciale e pubblicitaria.

Gabriella Napolitano

Fonti Normative

D.Lgs. 10-02-2005, n. 30

Cass. civ. Sez. I Ord., 17 ottobre 2018, n. 26001

Cass. civ. Sez. I Ord., 13 luglio 2018, n. 18725

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