La sentenza della Cassazione: l’apologia del fascismo

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 8108 del 14 dicembre 2017, ha escluso la configurabilità del delitto delle c.d. manifestazioni fasciste, ai sensi dell’art. 5 della legge del 20 giugno 1952 n. 64, facendo riferimento a condotte tipiche del partito ormai disciolto come la “chiamata del presente” ed il “saluto romano”.

sentenza della cassazione: l’apologia del fascismo

A tal proposito, la legge del 20 giugno 1952, n. 645, la c.d. legge Scelba, ha vietato la riorganizzazione del disciolto partito fascista e previsto i reati di apologia di fascismo, di istigazione e reiterazione delle pratiche tipiche e proprie del partito e del regime cessati.

Tali disposizioni normative intendevano punire i fenomeni di discriminazione e le idee razziste proprie del movimento fascista, le quali erano ormai contrarie ai principi consacrati nella Carta Costituzionale.

Successivamente con la c.d. legge Reale, legge n. 654 del 13 Ottobre 1975, sono state eliminate tutte le forme di discriminazioni razziali; mentre, la legge Mancino ha ampliato le ipotesi nelle quali fosse possibile inquadrare il delitto per la repressione delle condotte di propaganda delle idee fondate sulla superiorità della “razza” e di istigazione a commettere violenza per motivi meramente razziali, etnici e religiosi.

Con l’emanazione del Decreto legislativo n. 21 del 1 marzo 2018, effettuando un riordino della materia penalista, sono state inserite le ipotesi incriminatrici di cui all’art. 604bis, in sostituzione dell’art. 3 della L. 654/1975, e l’art. 604ter: l’articolo 604bis c.p. dedicato alla propaganda ed all’istigazione di comportamenti mirati alla discriminazione razziale dell’individuo; mentre l’articolo 604ter c.p. ne definisce le circostanze aggravanti.

La Cassazione con la sentenza n. 8108 del 2017 ha escluso il reato di manifestazione fascista, contestato dalla Corte di Appello di Milano, relativamente ad una manifestazione di un partito politico avente le medesime ideologie del movimento formatosi in Italia nel primo Dopoguerra.

La manifestazione oggetto di esame riproduceva fedelmente ciò che usualmente avveniva tra i componenti del partito fascista, ovvero la chiamata del presente, il cd. saluto romano, a cui si accompagna l’esposizione di uno striscione inneggiante ai camerati caduti e di numerose bandiere con croci celtiche.

La questione, sollevata dinanzi al giudice, partiva dall’errato presupposto della mancata autorizzazione dello svolgimento della manifestazione da parte della Questura di Milano, la quale, invece, aveva autorizzato il corteo notificando agli organizzatori una diffida ad eliminare ciò che potesse, in qualche modo, inneggiare il fascismo, come tamburi e le bandiere con le croci celtiche.

La Suprema Corte nel caso di specie si è pronunciata relativamente alla legittimità del “saluto romano”, il quale integrava il reato di cui all’art. 5 della legge n. 645 del 1952, modificato successivamente dalla legge n.152 del 22 maggio 1975, per la connotazione di pubblicità che qualifica le espressioni evocative del partito fascista lesive per l’ordinamento democratico e l’ordine pubblico.

La Corte, dichiarando inammissibile il ricorso, ha motivato la sua decisione facendo leva su due pronunce della Corte Costituzionale (nn. 74 del 06/12/1958 e 15 del 27/02/1973) in cui erano state contestate solo le manifestazioni tali da determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste, ovvero di quelle manifestazioni che fossero idonee a provocare consenso della massa nei confronti del partito disciolto.

Nel caso di specie, i giudici hanno ritenuto che vi fosse una mera commemorazione del corteo, del quale avevano già concordato le modalità: silenzio, privo di inno, canti o slogan evocativi dell’ideologia fascista e l’assenza di comportamenti aggressivi, armi o altri strumenti. Inoltre, la Cassazione nella sentenza si sofferma sul reato di apologia del fascismo in virtù delle libertà garantite dall’art. 21 della Carta Costituzionale.

Stante la tutela fornita nella Costituzione alla libertà di espressione e di pensiero, sarebbe opportuno sanzionare, secondo l’orientamento assunto dalla Corte di Cassazione, attraverso un combinato disposto con la legge Scelba e tutte le leggi e sentenze successive che hanno modificato quest’ultima, “solo quei comportamenti che siano in grado di suggestionare concretamente le folle inducendo degli astanti sentimenti nostalgici in cui ravvisare un serio pericolo di organizzazione del partito fascista”.

Nello specifico, deve essere il giudice di merito a valutare le condizioni ambientali e psichiche nelle quali il “saluto romano” sia in grado di creare consenso ed una base solida, affinché si possa ricostruire il partito fascista.

Dalla sentenza in esame, pertanto, si evince che il mero utilizzo di simboli propri del regime fascista non integri un reato ex se, qualora non venga rilevata una reale offensività. Inoltre, giova sottolineare che è necessario esaminare tale rapporto non soltanto in virtù delle libertà costituzionali ma anche alla luce dell’art. 10 della Convenzione EDU, il quale, parimenti all’art.21 Cost, garantisce all’individuo la libertà di manifestazione del pensiero e di stampa.

Tale articolo consente, però, la limitazione della predetta libertà in tre casi: quando tale restrizione sia espressamente prevista per legge; che la conseguente interferenza col diritto di espressione persegua i fini previsti dal medesimo articolo 10; l’interferenza si concretizzi in misure necessarie e proporzionali sia allo scopo perseguito, sia al fatto al quale si intende reagire.

Anche in questo caso non sarebbe, dunque, necessario limitare la libertà di pensiero in quanto, il mero corteo, così come si evince dalla sentenza n. 8101 del 2017, non si predispone lo scopo di far “risorgere” il regime fascista, ma ha lo scopo meramente commemorativo di ricordare tre camerati che in passato si sono resi protagonisti di alcune vicissitudini politiche.

Recentemente, inoltre, la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi sul reato di apologia del fascismo, annullando la condanna di quattro persone, tra cui il presidente di Lealtà Azione, che il 25 aprile 2016 fecero il saluto romano mentre si commemoravano i caduti della Repubblica sociale italiana.

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