Gravidanza e lavoro notturno: tra discriminazione e onere di prova

Esiste una normativa europea che preveda una tutela nel caso una lavoratrice gestante, puerpera o in periodo di allattamento che effettua un lavoro anche parzialmente notturno e che consideri questo un rischio per sua salute e quella del bambino? La risposta è sì, stando alla causa C-41/17 esaminata dalla Corte di giustizia europea.

Il caso

Il caso in questione riguarda una donna spagnola assunta come guardia di sicurezza a partire dal marzo del 2015. L’orario di lavoro svolto comprendeva l’avvicendarsi di turni misti di 8 ore, alcuni dei quali in orario notturno.

La donna, dopo aver dato alla luce un bambino nel settembre del 2017, decide di chiedere la sospensione del proprio contratto di lavoro più la concessione di una indennità, prevista dalla normativa spagnola, per il rischio che possono intercorrere durante il periodo di allattamento. A questo proposito, chiede a Mutua Umivale (società mutua che copre i rischi relativi a infortuni e malattie sul lavoro) un certificato che attesti la reale sussistenza di un rischio per l’allattamento in relazione alla posizione lavorativa coperta.

La domanda di sospensione, però, non viene accolta. La donna, quindi, dopo essersi vista respingere un ulteriore reclamo, ha deciso di rivolgersi al Tribunal superior de justicia de Galicia.

Secondo la normativa europea presa in esame, la direttiva 92/85/CEE prevede diverse tutele per le donne gestanti, puerpere o in fase di allattamento, tra cui la caduta dell’obbligo di svolgere un lavoro notturno durante i periodi più a rischio (gravidanza e allattamento); tutto ciò, previa presentazione di un certificato che ne attesti l’effettiva necessità. La direttiva 2006/54/CEE in tema di parità di trattamento tra uomo e donna, prevede invece un’inversione dell’onere di prova.

Stando alla normativa, quando un dipendente si sente vittima di una inosservanza del principio di parità di trattamento e che quindi produce una documentazione riguardo tale disparità, è compito della parte convenuta (in questo caso l’azienda) provare che il misfatto non sia avvenuto tramite prova documentale.

Le problematiche del caso

Il Tribunal superior deve, perciò, muoversi tra due dubbi: primo, la definizione di «lavoro notturno»; secondo, se sia o meno il caso di applicare quanto previsto dalla direttiva 2006/54/CEE. Per questo motivo, i giudici spagnoli si sono rivolti all’Unione.

Esaminando il caso, la Corte di giustizia europea ha ritenuto giusto applicare la direttiva 92/85/CEE anche nel caso in cui un lavoratore o lavoratrice svolga anche solo parte delle sue ore di lavoro in orario notturno. Questo anche grazie alla direttiva 2003/88/CE, la quale stabilisce che la qualifica di «lavoratore notturno» vale anche per i soggetti che si trovano a svolgere anche solo parte delle proprie ore lavorative durante la notte.

Le due direttive prese in considerazione, quindi, devono essere considerate come pari, in quanto entrambe mirano a tutelare la salute e la sicurezza delle donne lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento.
Per beneficiare della protezione prevista dalle due norme, la lavoratrice deve produrre la documentazione necessaria ad accertarne lo stato di rischio.

L’inversione dell’onere di prova

Per quanto riguarda invece l’inversione dell’onere di prova (direttiva 2006/54/CE), la Corte dichiara la sua applicazione nel caso in cui la lavoratrice presenti dubbi riguardo alle valutazioni dei rischi legati al posto di lavoro nelle quali vi siano carenze rispetto a situazioni individuali, il che può suggerire l’esistenza di una discriminazione in base al sesso o a qualsiasi altro fattore.

Riguardo il caso specifico e per quanto specificato nella direttiva 92/85/CEE, l’assenza di una valutazione riguardo le donne in gravidanza, puerpere o in periodo di allattamento – le quali, come si è visto, godono di una protezione più alta – può suggerire una grave mancanza da parte dell’azienda e una possibile discriminazione o trattamento meno favorevole basati sul sesso del lavoratore.
Di conseguenza sembra che l’azienda non abbia presentato il giusto esame dei rischi, e che quindi la lavoratrice sia stata discriminata.

Ora tocca al Tribunal superior riesaminare il caso tenendo conto delle valutazioni europee e tenendo conto dell’onere di prova che spetta all’azienda.

Emanuele Secco, Giuridica.net

Fonti

Il Sole 24 Ore
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