Animale domestico: una definizione fallace, soprattutto in condominio

«domèstico […] 2. agg. a. Di animali che vivono permanentemente con l’uomo, il quale li nutre, li protegge, ne regola la riproduzione, e li utilizza nelle loro capacità di offrire aiuto, lavoro e prodotti vari (opposto a feroce o selvatico).»

Il dubbio sulla definizione di animale domestico

Se il vocabolario Treccani non lascia spazio a dubbi, lo stesso non si può dire dell’ordinamento italiano. Stando, infatti, a quanto sopracitato, non ci sarebbe alcun limite sulle specie che è possibile ospitare in appartamento; il che viene confermato dall’art. 1138 del Codice Civile: «le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici». Una definizione, quella di domestico, che varia rispetto alla versione precedente della legge, nella quale si usava l’accezione “animali da compagnia”.

La scelta di linguaggio, però, non è stata delle migliori.  Facendo leva sul termine “domestico”, molti regolamenti di condominio hanno cominciato a vietare la detenzione di svariate specie di animali esotici. Stando a quanto asserito dalla SIVAE (Società Italiana Veterinaria Animali Esotici), infatti, «il legislatore ha perso l'occasione per adottare una definizione scientificamente esatta e giuridicamente sostenibile. Utilizzando l'impropria definizione di “animali domestici”, il condominio dice sì al maiale (che è domestico) in salotto e no al criceto (che non lo è)».

Frutto di tale scelta di registro è l’aumento delle liti di condominio, con il conseguente rischio dell’aumento degli abbandoni. Entra in gioco, quindi, l’accezione comune di domestico, la quale fa rientrare anche quella di “addomesticato”. Un esempio, è proprio il furetto, scientificamente un animale selvatico, il quale viene considerato alle stregue di un comune gatto in quanto addomesticato.

La decisione della normativa europea

La normativa europea sembra mettere una pezza definitiva sulla questione. La Convenzione Europea per la Protezione degli Animali da Compagnia (13 novembre 1987) – così come è stata ratificata dall’Italia – è, infatti, stata pensata come strumento di protezione rivolto a «ogni animale tenuto, o destinato ad essere tenuto dall’uomo, in particolare presso il suo alloggio domestico, per suo diletto e compagnia». Una definizione che non lascia dubbio sul fatto che non può esserci una distinzione tra specie vera e propria quando si parla di animali domestici, in quanto non è detto che, come spesso viene asserito durante una lite condominiale, un animale esotico è più pericoloso di uno “normale”.

Il Ministero della Salute, poi, ha detto la sua con la legge n. 281 del 14 agosto 1991, con la quale si vuole tutelare gli “animali di affezione” e prevenire il randagismo. Oppure, si potrebbe tirare in ballo l’Accordo tra Ministero della salute, regioni e province autonome di Trento e Bolzano (6 febbraio 2003), atto a disciplinare il benessere degli “animali da compagnia”. Tuttavia, manca un vero e proprio elenco sul quale basarsi per stilare un divieto di sorta.

L’accezione di “animale domestico” è quanto di più lontano da una definizione. E dire che ce ne sarebbe bisogno sia per tutelare la salute pubblica sia per evitare inutili liti, anche se entrambi potrebbero essere salvaguardati con un pizzico di buon senso da ambo le parti.

Emanuele Secco, Giuridica.net

Fonte

Il Sole 24 ore