Separazione tra conviventi con figli minori: diritti e doveri
La legge Cirinnà, ha riconosciuto giuridicamente, le coppie conviventi, attribuendoli diversi diritti e doveri. Nei confronti dei figli delle coppie di fatto, invece, si applicano le stesse norme, dettate per i figli nati in costanza di matrimonio. Vediamo i dettagli.
Quando una copia di coniugi decide di separarsi sorge la necessità di stabilire i rapporti tra loro coi figli, soprattutto se si tratta di minori, in quanto nasce l’esigenza di tutelare i loro interessi. Fino a pochi anni fa, la questione si poneva in relazione alle coppie c.d. di fatto conviventi, cioè coloro che decidevano di convivere in assenza di unione coniugale, sia essa religiosa oppure civile.
Le cose si complicavano, a maggior ragione, in presenza di figli minori, identificati al tempo come figli nati fuori dal matrimonio. La legge Cirinnà è intervenuta a disciplinare la materia, riconoscendo giuridicamente, le coppie conviventi, attribuendogli diversi diritti e doveri, con ovvie conseguenze anche per i figli minori. Quali? Proseguendo con l’articolo di seguito ne apprenderete qualcosina più. Buona lettura
La convivenza di fatto
L'argomento che tratteremo oggi, riguarda il tema del diritto di famiglia, e più precisamente i diritti e doveri riconosciuti, in caso di separazione tra conviventi di fatto con figli minori. Ma cosa si intende per convivenza di fatto? Per capire il significato nell’ambito del diritto di famiglia dobbiamo iniziare con lo scindere le due parole;
1) la convivenza è il fatto e la condizione di vivere stabilmente insieme in uno stesso luogo;
2) la convivenza “di fatto”, dunque, e la condizione di coabitazione stabile di una coppia non legata da vincolo di matrimonio, sia esso contratto civilmente, che per sacramento religioso.
Nel gergo giuridico viene identificato con l’espressione di convivenza “more uxorio” (a modo di moglie), che sta proprio ad indicare un rapporto di convivenza in tutto e per tutto identico a quello che avviene tra coniugi.
L’unico elemento che manca è l’unione coniugale tra la coppia, poiché la convivenza non è la conseguenza diretta della celebrazione di un’unione civile (quella che avviene dinanzi al Sindaco o di un suo delegato con tanto di fascia tricolore), né per effetto di matrimonio religioso (cioè quello che si celebra in chiesa per intenderci o davanti ad un Ministro di culto di altra confessione religiosa).
Fino al 2016, questo tipo di condizione non era espressamente disciplinato, per cui si trattava di un sentiero sconosciuto le cui uniche indicazioni provenivano dalle pronunce dei giudici. Non ricevendo alcuna tutela dall’ordinamento italiano, e non essendo riconosciuti giuridicamente, risultavano esclusi dal complesso di diritti e obblighi, che invece l’ordinamento attribuiva ai coniugi uniti in matrimonio. Le cose sono cambiate nel 2016, allorquando il Parlamento Italiano, ha approvato la Legge n. 76, cd. Legge Cirinnà, che ha previsto il riconoscimento giuridico delle convivenze di fatto, elencando una serie di diritti e doveri, che possono essere fatti dai conviventi, sia nei confronti della pubblica amministrazione e sia nel loro legame, qualora avvenga lo scioglimento della convivenza ed occorra regolare i rapporti personali e patrimoniali, nonché l’affidamento dei figli minori.
La convivenza di fatto, può instaurarsi tra due soggetti di diverso o di stesso sesso, che abbiano raggiunto la maggiore età, tra cui non sussista alcun vincolo di parentela, affinità o adozione, né altresì legate in matrimonio o unite civilmente. Tale legge regola sia le unioni civili tra persone dello stesso sesso, che la convivenza di fatto.
L’art. 1, difatti, statuisce che “La presente legge istituisce l'unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione e reca la disciplina delle convivenze di fatto.” Secondo la definizione, fornita dalla Legge Cirinnà, la qualificazione di due persone, quali conviventi di fatto, deriva dalla sussistenza tra loro di un rapporto affettivo, connotato da un elevato grado di stabilità, che convivono nella stessa abitazione, volto alla mutua assistenza sia materiale che morale.
Per ottenere il riconoscimento a livello giuridico, occorre effettuare un’apposita dichiarazione all’anagrafe del comune di residenza, in cui i due soggetti, esprimono la loro volontà di ufficializzare il loro rapporto, divenendo in tal modo, conviventi di fatto, e di conseguenza titolari di una serie di diritti e doveri.
I diritti tra conviventi
La Legge Cirinnà, ha previsto e regolato una serie di prerogative e diritti collegati alla convivenza di fatto, che ripercorrono sostanzialmente i diritti e doveri delle coppie sposate.
Le disposizioni attinenti la convivenza di fatto sono regolate a partire dall’art. 36, della legge n.76/2016, il quale inizia col definire l’istituto in parola ed il concetto di stabile convivenza; “si intendono per «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile.”
Ai conviventi, la legge ricollega in modo automatico una serie di diritti connessi alla vita sociale, riconosciuti alle coppie unite in matrimonio, tra quali è possibile annoverare:
1) I conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall'ordinamento penitenziario (art. 38);
2) In caso di malattia o di ricovero, i conviventi di fatto hanno diritto reciproco di visita, di assistenza nonché il diritto di accesso alle informazioni personali, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere o di assistenza pubbliche, private o convenzionate, previste per i coniugi e i familiari (art. 39);
3) il diritto di rappresentazione, in caso d'incapacità o per la donazione degli organi oppure quale tutore o curatore in caso d’interdizione o inabilitazione. La nomina del partner, quale proprio rappresentante, deve essere effettuata per iscritto, apponendo in calce la propria firma, fatta eccezione esclusivamente per l’ipotesi, in cui il soggetto sia impossibilitato, procedendo, in tal caso, con la nomina orale, alla presenza di un testimone;
4) In caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni. Ove nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite, il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni.
5) Nei casi di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto di locazione della casa di comune residenza, il convivente di fatto ha facoltà di succedergli nel contratto (art. 44);
6) Nel caso in cui l'appartenenza ad un nucleo familiare costituisca titolo o causa di preferenza nelle graduatorie per l'assegnazione di alloggi di edilizia popolare, di tale titolo o causa di preferenza possono godere, a parita' di condizioni, i conviventi di fatto.
7) La legge n.76/2016 ha previsto, inoltre, l’introduzione nella sezione VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile dell’art. 230ter intitolato “diritti del convivente”, prevedendo “al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonche' agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. I
l diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di societa' o di lavoro subordinato”
Il contratto di convivenza
L’art. 50 della Legge n.76/2016 prevede che i conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza. Tale contratto deve avere forma scritta, a pena di nullità, per atto pubblico o scrittura privata autenticata.
L'atto pubblico è il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale, ovvero in questo caso anche da un avvocato, autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l'atto è formato, che ne attestino, altresì, la conformità alle norme imperative e all'ordine pubblico; la scrittura privata autenticata, è il documento redatto dalle parti stesse che viene poi autenticato da un notaio, altro pubblico ufficiale o avvocato che attesti che la sottoscrizione dell’atto è avvenuta tra le parti in sua presenza.
Anche in caso di modifica o di risoluzione del contratto di convivenza occorrerà osservare la forma scritta. Il contratto di convivenza deve recare l'indicazione dell'indirizzo da ciascuna parte al quale sono effettuate le comunicazioni inerenti al contratto medesimo.
Per quanto attiene al contenuto essenziale dell’atto, esso può indicare:
a) l'indicazione della residenza;
b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo;
c) il regime patrimoniale della comunione dei beni, e cioè il regime ordinario di comunione legale previsto dal codice civile (artt. 177-209 c.c.).
A differenza del matrimonio ed unioni civili, in cui la comunione dei beni, si applica automaticamente ai rapporti patrimoniali della coppia, salvo una loro diversa indicazione; nella convivenza di fatto, i rapporti patrimoniali, s’intendono separati, salvo appunto che i conviventi decidano per l’applicazione della comunione dei beni.
A proposito della possibilità di modifica del contratto in parola, la Legge Cirinnà prevede che il regime patrimoniale scelto nel contratto di convivenza può essere modificato in qualunque momento nel corso della convivenza con le modalità.
Ai fini dell'opponibilità ai terzi del contratto di convivenza, il professionista che ha ricevuto l'atto in forma pubblica o che ne ha autenticato la sottoscrizione deve provvedere entro i successivi 10 giorni a trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l'iscrizione all'anagrafe. Per opponibilità ai terzi, si intende l’idoneità dell’atto stesso a produrre i suoi effetti anche nei confronti di coloro (terze persone) che possano reclamare diritti o pretese su aspetti ed elementi indicati nel contratto di convivenza.
La Legge Cirinnà, ha previsto anche specifiche ipotesi in cui, il contratto di convivenza, può essere dichiarato nullo dal giudice, su istanza di qualsiasi soggetto interessato. Il contratto di convivenza, è nullo, qualora venga concluso:
1) in presenza di un vincolo matrimoniale o unione civile oppure di un’altra convivenza di fatto, riguardante uno o entrambi i conviventi;
2) in mancanza di stabile convivenza;
3) presenza di un rapporto di parentela, affinità o adozione tra i due conviventi;
4) se sottoscritto da minorenni;
5) Se uno dei due o entrambi è dichiarato interdetto per infermità mentale;
6) in presenze di condanna penale del partner, per tentato omicidio oppure assassinio dell’ex coniuge dell’altro convivente.
Nelle ultime due ipotesi, gli effetti del contratto di convivenza, rimangono sospesi, fino al termine del procedimento di interdizione giudiziale nonché fino all’emanazione della sentenza di proscioglimento del convivente accusato di tentato o consumato omicidio.
Oltre alle ipotesi di nullità, la Legge Cirinnà, disciplina anche la risoluzione del contratto di convivenza, la quale può avvenire sia attraverso un accordo tra le parti e sia per recesso unilaterale di un solo convivente. In entrambi i casi, per la valida risoluzione del contratto, è richiesto che si proceda per atto pubblico oppure con scrittura privata autenticata.
Inoltre, la risoluzione è prevista, anche qualora i conviventi:
- - contraggono matrimonio oppure un’unione civile tra loro o con un soggetto terzo;
- - in caso di decesso di un convivente.
La risoluzione del contratto di convivenza, determina lo scioglimento del regime della comunione dei beni, ove sia stato scelto, in precedenza, dai due conviventi.
In caso di recesso unilaterale di un convivente, la Legge Cirinnà, prevede che qualora l’immobile, adibito a residenza comune, appartenga in proprietà esclusiva al solo convivente recedente, egli deve concedere all’altro convivente, un termine non inferiore a novanta giorni, al fine di lasciare l’abitazione.
I diritti nella separazione tra conviventi con figli
Per quanto il regime giuridico della convivenza di fatto sia stato ampiamente assimilato a quello delle coppie unite in matrimonio o per unione civile, restano ancora delle differenze a rammentare la diversa condizione giuridica tra loro.
Infatti, in caso cessazione del rapporto tra i conviventi di fatto, non è prevista la possibilità per il partner economicamente più debole, di chiedere l’assegno di mantenimento, in quanto la Legge Cirinnà, ha previsto soltanto il diritto all’assegno alimentare, necessario a far fronte soltanto ai bisogni primari, differenziandosi dall’assegno di mantenimento per il coniuge, che tende a garantire il medesimo tenore di vita, goduto in costanze del rapporto.
In tal caso, il convivente interessato, è tenuto a rivolgersi al giudice, affinché quest’ultimo, disponga a suo carico il versamento degli alimenti, purché dimostri di versare in stato di bisogno e di non essere in grado di provvedere al proprio sostentamento. L’entità dell’assegno alimentare, è stabilito dal giudice, in considerazione della durata della convivenza e della capacità economica del convivente tenuto ad adempiere.
Gli obblighi nella separazione tra conviventi con figli minori
Se vi è diversità quanto al trattamento ed alla misura dell’assegno di mantenimento o alimentare che dir si voglia tra la convivenza di fatto e quella derivante da vincolo coniugale, nei rapporti tra la coppia, cosa diversa è la situazione in cui siano presenti figli minori nati dalla convivenza di fatto medesima. In tal caso, difatti, la separazione tra conviventi, genera a loro carico i medesimi diritti ed obblighi, previsti in capo ai genitori uniti in matrimonio, nei confronti dei figli.
Ciò in quanto, non sussiste più alcuna disparità di trattamento tra figli nati da coppie unite in matrimonio ed i figli delle coppie non convolate a nozze. Da menzionare, infatti, che in passato vigeva la distinzione tra figli figli naturali e figli legittimi (ovvero figli nati fuori dal matrimonio o all’interno).
Attualmente, invece, si utilizza l’espressione di figli nati in costanza o meno di matrimonio, per ribadire l’assenza di diversità di trattamento (giuridico), come è confermato dallo stesso codice civile, secondo cui “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”.
Da ciò deriva, che i genitori conviventi, allo stesso modo dei genitori uniti in matrimonio, successivamente alla cessazione della loro convivenza, sono gravati dall’esercizio comune della responsabilità genitoriale, debbono provvedere, secondo la loro capacità lavorativa o attività domestica, al mantenimento, all’educazione ed istruzione dei figli, fornendo l’assistenza morale e materiale, in considerazione delle necessità ed ambizioni dei figli minori.
Si applicano, quindi, le disposizioni del codice civile Libro primo, Titolo IX, Capo II, sui rapporti familiari e la responsabilità genitoriale: “Il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”( art. 337ter co.1 c.c.).
Nella separazione tra conviventi con figli minori, i due partner, possono accordarsi sull’affidamento e collocamento della prole , stabilendo anche le modalità ed il tempo di permanenza presso il genitore non collocatario, nonché l’entità e modalità di versamento dell’assegno di mantenimento riconosciuto ai figli minori, secondo la capacità reddituale di ogni genitore, in considerazione del tenore di vita, di cui il figlio ha beneficiato, durante la convivenza e dei bisogni e necessità avvertite dal figlio medesimo.
L’accordo raggiunto dai due genitori al termine della loro convivenza, deve essere sottoposto alla valutazione dell’autorità giudiziaria, affinché possa accertarsi la sua corrispondenza all’interesse prevalente e superiore del figlio minore.
Allo stesso modo, se al termine della convivenza, i due partner, non raggiungono un accordo sul collocamento e mantenimento del minore, dovranno necessariamente rivolgersi al giudice, per la risoluzione della controversia. In mancanza di accordo, sarà il giudice, investito della controversia, a stabilire dapprima se i figli minori, sia affidati ad entrambi i genitori, secondo le regole dell’affido condiviso oppure nei casi in cui quest’ultimo sia pregiudizievole per il minore stesso, l’affido esclusivo ad uno solo di essi.
Il giudice, stabilisce anche il versamento di un assegno periodico a favore della prole, a carico del genitore economicamente più avvantaggiato, sulla base dei loro bisogni, in considerazione del tenore di vita, posseduto in costanza di rapporto, nonché della capacità economiche dei genitori e l'assistenza morale e materiale fornita ai figli stessi.
L’affidamento dei figli di genitori non sposati
Anche nei procedimenti relativi all’affidamento e mantenimento dei figli nati da genitori non uniti in matrimonio, si applicano sostanzialmente le medesime disposizioni previste per le unioni coniugali. Si tratta del c.d. principio della bigenitorialità, in base al quale occorre garantire alla prole minorenne, rapporti stabili ed effettivi con entrambi i suoi genitori, anche successivamente allo scioglimento del loro rapporto.
Innanzitutto per affidamento si intende l’attribuzione ai genitori del potere di prendere le decisioni fondamentali alla crescita dei figli, all’istruzione, all’educazione ed alla salute, ai bisogni alimentari ecc. Si parla in questi casi di affidamento condiviso (perché inerente entrambi i genitori) che si distingue da quello esclusivo, che vedremo nel dettaglio al paragrafo successivo. La domanda di affido del minore, sia essa a titolo condiviso oppure a titolo esclusivo, si propone con ricorso da depositare presso il tribunale del luogo ove risiede il figlio minore medesimo, indicando i fatti posti a fondamento della domanda medesima, il tipo di provvedimento richiesto all’autorità giudiziaria e le prove ed altri elementi utili alla decisione.
Nel procedimento di affido dei figli minori di coppie, solo conviventi, il giudice decide, secondo le norme dettate per il rito camerale, provvedendo al termine con decreto motivato, impugnabile dinanzi alla Corte d’Appello, competente per territorio.
Abbiamo visto che, l’art. 337ter co.1 del c.c. prevede che il figlio minore abbia diritto a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale. Lo stesso articolo, al comma 2, prevede che per realizzare la finalità indicata dal primo comma, nei procedimenti di separazione, il giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all'interesse morale e materiale di essa.
Valuta in primis la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all'istruzione e all'educazione dei figli.
Prende atto, se non contrari all'interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori. Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole, ivi compreso, in caso di temporanea impossibilità di affidare il minore ad uno dei genitori, l'affidamento familiare. Sulla base del principio di bigenitorialità, il giudice investito della controversia, valuta dapprima se sussistono i presupposti per disporre l’affidamento condiviso del minore ad entrambi i genitori, stabilendo altresì, il genitore presso cui, il figlio minore, avrà la propria residenza abituale, indicando le modalità relative al diritto di visita, riconosciuto al genitore non collocatario, e l’entità dell’assegno di mantenimento, stabilito in favore della prole minorenne, a cui devono far carico, ambedue i genitori, in misura proporzionale alle proprie capacità economiche e reddituali.
L’affido condiviso, comporta l’esercizio congiunto della responsabilità genitoriale, a carico di ambedue i genitori, tenuti a provvedere al mantenimento, educazione e cura del minore, in considerazione dei suoi bisogni nonché delle capacità ed inclinazioni e prospettive, espresse dal minore medesimo.
L’affido esclusivo
Si distingue dall’affidamento condiviso poiché non riguarda entrami i genitori, ma in relazione ad uno di essi. Il giudice, può d’ufficio o su istanza inoltrata da uno o ambedue i genitori, disporre l’affido esclusivo del figlio minore, nato da genitori conviventi, qualora l’affido condiviso, risulti contrario al suo interesse, in quanto suscettibile di arrecare un grave pregiudizio alla corretta e sana crescita psico-fisica del minore.
È importante capire che l’affidamento esclusivo ha carattere straordinario, in quanto va a derogare alla regola generale dell’affidamento condiviso, in quanto sottrae il figlio ad uno dei genitori. Pertanto, si tratta di un rimedio esperibile soltanto in quei casi in cui il giudice ritiene che quello condiviso possa essere estraneo agli interessi del minore o pregiudicarlo nei propri diritti. In tal caso, il potere di prendere le decisioni più importanti nell’interesse del figlio sono affidate ad uno solo dei genitori, esclusivamente al padre o alla madre.
Di regola è colui con il quale il figlio convive abitualmente. Si tratta di un’ipotesi tipica delle separazioni giudiziali, cioè quando i genitori non trovano accordo nelle decisioni sulla separazione ed arrivano allo scontro davanti al giudice. Ma ciò non esclude che si utilizzi nei casi di separazione su pacifica intesa tra i genitori stessi. Tra i motivi per cui si perviene all’affidamento esclusivo:
1) il disinteresse mostrato dal genitore, nei confronti del proprio figlio,
2) l’alienazione parentale, ossia quelle condotte ripetute nel tempo, allo scopo di denigrare l’altro genitore, sostenendo in tal modo, un allontanamento indotto nel figlio;
3) lo stato di condanna per reati di maltrattamento o altre gravi ipotesi delittuose;
4) gli abusi familiari e maltrattamenti subiti dal figlio o compiuti in sua presenza. Nel procedimento di affido, il giudice, può disporre, ove ritenuto necessario anche l’ascolto del figlio minore, che abbia almeno 12 anni o d’età inferiore, se in grado di comprendere l’importanza dell'affidamento.
Tuttavia, le decisioni di maggiore importanza relative all’educazione, istruzione e crescita del minore, devono sempre essere di comune accordo da ambedue, i genitori, fatta eccezione per l’ipotesi in cui, il giudice abbia disposto l’affidamento superesclusivo, attribuendo al solo genitore affidatario, tutte le decisioni riguardanti il figlio.
Il provvedimento di affido esclusivo, al pari di quello che disponga l’affidamento condiviso, possono essere sempre modificati o revocati dal giudice, su istanza di uno dei genitori. Infatti, il genitore escluso dall’affidamento, deve comunque, controllare che la condotta dell’altro genitore, verso il proprio figlio, sia rispondente al suo interesse prevalente e non pregiudichi il corretto equilibrio psico-fisico, da garantire in ogni caso al minore.
A chi spetta la casa familiare dopo la separazione?
A seguito dello scioglimento del rapporto, tra genitori conviventi, si pone la questione relativa alla sorte ed assegnazione della casa in cui, questi abbiano convissuto, durante la loro relazione. L’assegnazione della casa familiare, è condizionata in primis dall’esistenza o meno dei figli, nati dalla coppia convivente.
In tal caso, infatti, il giudice nel disporre, il regime di affidamento del figlio minore, decide anche presso quale genitore, il minore stesso venga collocato, e di conseguenza, quale genitore, abbia diritto a continuare a vivere nell’abitazione, che costituiva la casa familiare.
La scelta dei giudici, infatti, è diretta a tutelare esclusivamente il benessere del figlio minore, a permanere nella casa in cui è cresciuto ed ha sviluppato i propri affetti e relazioni. Pertanto, in presenza di figli minori, il genitore, collocatario del proprio figlio, avrà diritto al godimento dell’immobile, fino a quando il minore medesimo, non sarà in grado di sostenersi autonomamente.
In mancanza, di figli della coppia convivente, l’assegnazione della casa, sarà regolato dalle norme, dettate in materia di comunione e proprietà. Infatti, ove l’abitazione, sia in comproprietà tra i due conviventi, entrambi avranno diritto ad ottenere il pacifico godimento.
Ognuno di essi, potrà anche rivolgersi al giudice, affinché, questi disponga ove possibile, la divisione dell’immobile, in due unità distinte e separate, attribuite in proprietà esclusiva a ciascun convivente. In mancanza di divisione oppure ove essa non sia possibile, ogni convivente può acquistare la quota di comproprietà dell’altro, divenendo in tal modo unico proprietario oppure chiedere la vendita forzata all’asta dell’immobile, con distribuzione del ricavato tra i due conviventi.
Nel caso, invece che l’immobile, sia di proprietà esclusiva di un solo convivente, e non siano presenti figli della coppia di fatto, l’altro convivente non potrà vantare alcun diritto sull’abitazione, dovendola lasciare libera da ogni cosa, entro un congruo termine, assegnatoli dal convivente, unico proprietario.
Fonti normative
Codice civile: articoli 337 ter, 337 quater. Legge 20 maggio 2016, n. 76: Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze (legge Cirinnà).
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Marco Mosca
Sono l'Avv. Marco Mosca ed opero da 12 anni nel campo giuridico. Ho maturato una significativa esperienza in molti settori del diritto, in particolare nell'ambito della materia societaria e di tutto ciò che ad essa è collegato. Pertan ...